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mercoledì 12 novembre 2008

IL DIALETTO DI CANEPINA


Luigi Cimarra - Francesco Petroselli


CONTRIBUTO ALLA CONOSCENZA
DEL DIALETTO DI CANEPINA


Con un saggio introduttivo sulle parlate della Tuscia viterbese




Amministrazione Comunale di Canepina
Amministrazione Provinciale di Viterbo
2008

Con il contributo ed il patrocinio del Comune di Canepina
e della Provincia di Viterbo

Progetto grafico: Alfredo Romano
Cartine geolinguistiche: Gianni Centolani
Foto: Giuseppe Poleggi

© Copyright 2008 by L. Cimarra & F. Petroselli
Tutti i diritti riservati

Copertina: frontespizio di una lettera di Elvio Cianetti

Tipografia Punto Stampa – Civita Castellana 2008




PRESENTAZIONE
La politica dei beni culturali, la loro tutela e la loro salvaguardia costitui-scono una delle responsabilità più rilevanti e delicate per chi è preposto alla pubblica amministrazione, soprattutto oggi, in un’epoca nella quale la globa-lizzazione tende ad obliterare le realtà locali con tutto il loro patrimonio di tradizioni, di ‘usi e costumi’. Attraverso le scelte che le multinazionali opera-no a livello mondiale, si attua un processo di mercificazione e di omologazio-ne che tende inesorabilmente a cancellare le specifiche identità culturali per imporre un modello standard, legato al consumismo, cioè agli interessi eco-nomici di ristretti gruppi finanziari.
Se il rischio è urgente per le opere d’arte, per i beni archeologici, archivi-stici ed ambientali, diventa attuale ed irrinviabile per i cosiddetti beni immate-riali, come ad es. le lingue e i dialetti, per i quali la espropriazione è meno visibile e meno appariscente. Il noto linguista G. L. Beccaria, nella recentis-sima e stimolante opera “Tra le pieghe delle parole. Lingua storia cultura”, paragonando in maniera non iperbolica la condizione delle lingue alla pro-gressiva estinzione delle specie viventi sul pianeta, arriva ad affermare: “Oggi al mondo ne esistono all’incirca 5000 [lingue]. Entro la fine del secolo po-trebbe sparirne la metà, c’è chi prevede addirittura il 90 per cento. David Crystal sostiene che ne muore una ogni due settimane. Di questo passo a fine XXI secolo ne resteranno ben poche”.
Senza che ce se ne renda conto, viene decretato il declino di alcune civiltà antiche di millenni e si trasformano i membri di una comunità in individui emarginati o deracinés. E’, in sintesi, per i motivi sopra espressi che l’Amm.ne Comunale di Canepina e quella Provinciale di Viterbo hanno inteso sostenere l’onere finanziario per la pubblicazione di questo volume, nel quale vengono presentati alcuni documenti dialettali degli anni ‘30 del secolo scor-so, messi a disposizione dal generale dell’aeronautica, prof. Elvio Cianetti, docente di Merceologia all’Università La Sapienza di Roma. Si è ritenuto di dover dare in tal modo concreto sostegno ad una iniziativa atta a tramandare pezzi significativi della storia e della cultura locale, in linea di continuità con quanto ha finora egregiamente fatto nella subarea cimina il Museo delle Tra-dizioni Popolari di Canepina con l’organizzazione di mostre, convegni, attivi-tà didattiche ed editoriali.
L’auspicio è che le piccole comunità si mostrino sempre più sensibili al recupero e alla divulgazione delle testimonianze di storia locale, come stru-mento per conservare e promuovere la coscienza identitaria entro un più am-pio contesto di civiltà e di cultura.

Il Presidente della Provincia Il Sindaco di Canepina
Alessandro Mazzoli Maurizio Palozzi

L’Ass. Prov.le alla Cultura L’Ass. Com.le alla Cultura
Renzo Trappolini Carlo Palozzi



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[Tropea =] Vocabolario siciliano, fondato da Piccitto, diretto da G. Tropea, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, I-IV, 1977-1992, Catania – Palermo.

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G. Zerbini, La buca de la strega. Dialoghi dialettali - racconti in lingua - canti popolari - proverbi e detti locali - poesie, Montefiascone 1985, Tip. Graffietti.



ABBREVIAZIONI E SIMBOLI

a. anno
a c. di a cura di
accr. accrescitivo
agg. aggettivo
anatom. anatomia
ant. antico
antiq. antiquato
arc. arcaico
art. articolo
avv. avverbio
bilab. bilabiale
cap. capitolo
card. cardinale
cfr. confronta
cit. citato, citata
cm. centimetri
coll. collettivo
comm. commento
cond. condizionale
cong. congiunzione, congiuntivo
cons. consonante
costruz. costruzione
d. C. dopo Cristo
decl. declinazione
det. determinativo
dim. dimostrativo
dimin. diminutivo
dispr. dispregiativo
doc. documento
ediz. edizione
es. ess. esempio, esempi
euf. eufemismo
f. femminile
femm. femminile
fig. figura
fut. futuro
gloss. glossario
ibid. ibidem
id. idem
idron. idronimo
imp. imperativo
impers. impersonale
impf. imperfetto
imprec. imprecazione
indef. indefinito
indet. indeterminativo
inf. infinito
infant. infantile
inter. interiezione
interr. interrogativo
intr. intransitivo
inv. invariabile
ipoc. ipocoristico
ital. italiano
kg. chilogrammi
l litro, litri
lat. latino
letter. letteralmente
LNaz. lingua nazionale
loc. locuzione
m. maschile
masch. maschile
ms. manoscritto
mt. metro, metri
nom. nominale
num. numero, numerale
occl. occlusiva
ogg. oggetto
opp. oppure
p. pass. participio passato
p., pp. pagina, pagine
par. paragrafo
part. participio
pass. passato
perf. perfetto
pers. persona, personale
pl. plurale
plur. plurale
poss. posessivo
pr. pronuncia
prep. preposizione
pres. presente
pron. pronome, pronominale
prov. proverbio, proverbiale
racc. raccoglitore
rec. reciproco, recente
rif. riferito
rifl. riflessivo
rub. rubrica
rust. rustico
s. sostantivo
s.a. senza anno di stampa
s.l. senza luogo di stampa
s.v. sub voce
scherz. scherzoso
scil. scilicet
sec. secolo
sg., sgg. seguente, seguenti
sicil. siciliano
sill. sillaba
sing. singolare
sinon. sinonimo, sinonimico
sogg. soggetto
son. sonora
sopr. soprannome
sost. sostantivo
spec. specialmente
suff. suffisso
t. tomo
ton. tonico, tonica
top. toponimo
tosc. toscano
trad. traduzione
trans. transitivo
trasl. traslato
v. verbo
v., vv. verso, versi
var. variante
vd. vedi
verb. verbale
vezz. vezzeggiativo
voc. vocale
vs. versus
zool. zoologia


j fricativa palatale sonora (janna), intensa se intervocalica: fijjo.
chj occlusiva mediopalatale sorda davanti a j semivocale: chjuso.
ghj occl. mediopalatale sonora davanti a j semivocale: ghjanna.
ź affricata apicodentale sonora (ital.: mèźźo)

* forma ipotizzata o ricostruita
> evolve in
<> -i- sul tipo di schina “schiena”, spito “spiedo” (44 e site “siete”. Isolata appare la chiusura ulteriore della tonica nel raro jjéppe “zolle” [BT, VAS] (45).
Più complicati appaiono i dati ottenuti sulla pronuncia della o tonica, per l’incrociarsi di comportamenti toscani, umbri o meridionali. Nei Cimini troviamo l’esito normale di ópo [BS, CNP, VAS] e lópo [BS, BT, CCA, CNP, MS, R, VAL], accanto a sónno [CCA, CNP]. A Canepina la serie si arricchisce in: fóco, dóppo, bbórgo “porco” (46).
Sempre in accordo col toscano meridionale, oltre che con l’umbro, troviamo generalizzata davanti a cons. palatale, una ó in luogo della u. La tendenza per questa soluzione risulta salda sia nel capoluogo provinciale (47), sia in centri minori (48).
Analogamente a quanto notato sopra per la e, il cambiamento metafonetico o > u risulta ampiamente attestato nel falisco-cimino, per cui a Soriano abbiamo: bbuccuni, capucciuni, carzuni, cetruni “cetrioli”, chjacchjaruni, cummuni, curaggiusi, cùtiche “cotenne”, duluri, frignuni, libbaruni “libroni”, nui, pennuluni, piccasurgi “pungitopo”, ricurdi, rui “rovi”, scaluni, sganassuni, sguìciuni “scrosci obliqui di pioggia”, signuri, strascinuni, suli, vui, vicchjuni “gerontocomio”, i zzeccatui fatti coi scopóni e ccoi ffirgi; cui fanno eco in altri centri: agusto “agosto” [BS], bburgo “porco” [CNP], curri, curra, curréte, cùrrono, curza [CLA], curte [FAL], curza [CNP, VAS], munno “mondo”, muri “more” (frutti del rovo) [BS], turdo [CARB], turzi “torsoli” [OT] e il pronome vui [BOM, CCA]; nella frazione di Chia infine: bbuttuni, capuni, carźuni, culuri (49). Un po’ dovunque si ode la forma verbale contratta furno “furono” [S] o funno accanto a fussi, fusse, fùssomo [CLA] (50).
Abbiamo sopra già detto che la voc. aperta è in sillaba libera si dittonga in iè (come avviene nello standard: dieci); il fenomeno abbraccia tuttavia numerosi altri casi. Troviamo infatti nei Cimini: pièi “piedi” [CNP] e pièo [VAS], accanto a pièzzo [BS, CLA], viènco “vinchio” [CLA], tièngo e tienuto [C], pièrzica “pèsca” [CLA], jjenì [VAS], vièngono [R] (51). Ma non mancano, nella stessa zona, neppure i dittonghi con é chiusa, dato che a Canepina si usano i sost. piérgola, piértica, piérzica, siérte, e a Caprarola risulta anche il masch. piérzoco. In altri casi molto numerosi, invece, la e ha conservato il grado aperto senza subire dittongamento, ed ecco quindi parole frequenti come le seguenti: i sost. mèle e lèvito, le forme verbali mète, tène, vène (di Viterbo e numerose altre località); e nei Cimini: sèda “sedere” [CARB, F] accanto a sèa [CNP, S] e sèjja [VAS], pèe [R], fèlo “fiele” [BS] (anche di Bagnoregio) e vèle “id.” [BS, CNP] (cfr. fèle in Versilia) (52).
Le forme vièngo e viènghe di Caprarola (53) trovano riscontro in numerose forme santorestesi, presenti anche in area toscana, sorte per un’estensione del movimento di dittongazione a casi in cui non sarebbe contemplato. Infatti, a Sant’Oreste, centro fino a tempi recenti molto conservatore, il fenomeno che era pure del viterbese e romanesco antichi, si verifica in maniera sistematica (54).
Un altro fenomeno, diffuso in tutto il Meridione, che trova ampio riscontro nei Cimini, è quello della prostesi di fricativa palatale. Si tratta del sorgere di un suono parassitico davanti all’iniziale vocalica della parola, per es. nel caso di certe forme verbali: jjè e jjèra [CNP, S], jjescì [FAL], jjémpe, jjempinno “riempirono”, adè jjémpa “è piena”, jjempiva “riempiva” [R], chjémpa / jjémpa “piena” [S], jjémpo “pieno” [OT], jjèsce “esce, perde” (di liquido di un recipiente) [BS], ma anche di sost.: jjóva “uova”, jjómmino “uomo”, jjórto “orto” [CNP], chjèpa “epa, pancia” [CLA] o dell’agg. jjarto “alto” [F] (55).
Comune al marchigiano meridionale, è la dittongazione che ha luogo in nocciuòle [CLA] e nuòdo [CNP], fenomeno segnalato per Viterbo. Nella trascrizione ottocentesca in dialetto d’una novella del Boccaccio, compaiono infatti forme come le seguenti: cuoróna, puotésse, puolmóne, duònna, alluóra, segnuóre, sipuólcro, ecc. (56). L’uso venne confermato nel 1934 da Raffaele Giacomelli per Viterbo e Sant’Oreste, in un’indagine di verifica dei dati raccolti per il primo Atlante linguistico Italiano [AIS] effettuata in vari centri della nostra provincia (57).
Ma può accadere di cogliere ancora oggi, sulle labbra di anziani particolarmente conservatori, parole come cuòmpeto “compito scolastico” [VT], oppure espressioni come: se struòzza, pe la maduònna!, inzuòjjo, puòrta [TU], un tempo normali e di uso generalizzato; tanto che tale allungamento è da molti parlanti considerato un tratto caratterizzante della pronuncia in uso nei centri prossimi al capoluogo (58). Il fenomeno, però, è stato da noi registrato non solo a Caprarola, a Viterbo (gruòsse), a Farnese nel Castrense (ariquòrdete! “ricordati!”), ma è attestato ben più a nord, a Onano, dove linziòlo alterna con linzòlo, e a Proceno in: cuòsa, avuòglia, m’arricuòrdo (59).
A Canepina troviamo la pronuncia con ó chiusa di mórto accanto alle forme dittongate diórmi, jjóvo, jjórto, gnóvo “nuovo” (alternante con nióvo, come in Val di Chiana e a Velletri) (60), stiórto, con marcata tendenza alla velarizzazione, ovvero a chiudere la vocale in u, come succede in stiurta; cfr. piórta a Carbognano ed il toponimo pórta a Civita Castellana (opposto all’usuale sost. pòrta). Si noti, sempre a Canepina, per dissimilazione, il sost. siólo “cuoio, suola” (nel resto della Provincia: sòlo) (61).
Le vocali atone tendono facilmente a cadere o a trasformarsi. Così, a volte si può verificare l’aferesi della a iniziale: stròliga, postèma “tormento” [CNP], rïoplano [S], véna “avena” [CLA], bbusivo “abusivo” [VAL], rénga o ringa, “aringa”, càscia “acacia” [VAS], sfardo “asfalto” [F, OR], bbusà “abusare”, lòro “alloro”, mmazzatóra “mattatoio”, stuto “astuto” [F], stùzzie [OT] (62); oppure la trasformazione in velare: oprì [CC, CNP, T], uprì [CT], soraga “sarago” [CNP], sorraga, upèrto [S], ossógna “sugna” [CCA] accanto a sógna [CC, SOR] (63). La stessa vocale a compare ancora oggi in funzione prostetica, in maniera sistematica davanti a vibrante: acconniménto “condimento”, addòtto “dotto” [F], arisbejjà “risvegliare” [CNP, S], addeventà, addomannà, allicenziato, ammischjà, andovinà, arebbuttà, arecamato [CNP]; aricòtta “ricotta”, aretréppio “piegatura della stoffa nell’orlo del vestito per poterlo allungare” [VAS], aristèllo “rastrello” [CCA, F] (64); sostituisce la i in parole inizianti per im: annanzi “davanti” [CNP, CLA], ampegnà, angrassà, andégne “intingere” [CNP]; ammoccà “entrare”, andènna “intendere”, anfónnise “bagnarsi”, anguattà “nascondere”, angumingià “incominciare” [S]. In sillaba tonica si verifica qualche caso di palatizzazione nella fascia prossima al confine con l’Umbria, per es. a Vasanello dove troviamo fièto “fiato”.
Nel caso sia seguita da cons. laterale, la vocale mediana subisce un processo di velarizzazione, ben documentato a Faleria, comune a contatto con la Provincia di Roma, dove abbiamo: gauźźétta “calzino”, gauźźóni “calzoni”, scàuźźo “scalzo”. La stessa vocale, contenuta nella sillaba iniziale, subisce varie trasformazioni, per cui troviamo reccòdda “raccolta”, remmollito, per dissimilazione regazza [CNP], renòcchja “rana” [F] (65); a Calcata ròpe “apre” e rupèrto, ròpono; a Canepina ropì “aprire”, roprì, rupèrto, oprì; Vasanello ropì; a Caprarola si ha ropì (con ròpo, ròpi, ropite, ròpono e ropinno “aprirono”), ma il part. passato rupèrto (66).
Anche nel caso della palatale chiusa, nelle stesse condizioni, si notano analoghi mutamenti. Passa ad i in istate [CNP, L, OR]; ad a in abbrèo [BOM, F, S, VAS], matarazzo [CC, CNP], affettivo “effettivo”, aspèrto “esperto”, bbradèlle “bretelle”, disartóre “disertore”, fariòlo “ferraiolo, mantello”, talèfono “telefono” [F], bbaròzza “carro agricolo” [S] (67); si rinforza in: jjérto “grosso, spesso” [BT, CNP, F, VAS] o gnérto [CC] nel significato di “rozzo, grezzone”; oppure dilegua, come accade pure nel pitiglianese, per cui abbiamo a Montefiascone la forma sincopata disipra o disìpara “erisipela”, a Civitella d’Agliano dissìpola, con assordimento di dentale tisìpala [CT], desìpara, fervescènza “effervescenza”, petemìa “epidemia”, rèdice “malvagio” [F], risìbbile (femm.) “carie”, rètice “eretico, empio” [VAS], redecale “ereticale” [MF], e in varie località sono correnti defìzzio, làstico, lettorale, levazzióne, limòsina, resìa, romito “eremita”, stratto, ecc. (68).
Come nell’Anconetano e in Toscana, si verifica di frequente la tendenza della e protonica, interna alla sillaba iniziale, a chiudersi in i. Il fenomeno si estende su larga parte del territorio: lo abbiamo documentato sia nel capoluogo (siménta, sinale “grembiule”) e sue frazioni (risiquiti “requisiti”), sia in numerosi centri minori. Altrettanto nella zona cimina e ortana: cìnima “cinema”, cirimònie, fittuccine, liggèra, pinziéro, pitolante “petulante”, digama “tegame” [CNP]; bbittina “vettina, orcio da olio”, canipina “orto”, cinturino, lucchisina “lucchesina” (tipo di coperta) [S]; ciméndo “cemento” [CC, CT, F, OR, VAS]; carrittière, nissuno [CLA]; fisura “fessura” [F]; cirrata “ralla”, crispigni, ggilata, mirólla “midollo” [OT]; linzòla, pinnènte “orecchini” [CARB]; vinne [CCA]; vinuto, crisciuta [CHIA]; tirina “zuppiera” [BS]; mistière [R] (69).
Inversamente, in certe voci oggi arcaicamente connotate, la e si mantiene intatta a differenza dell’uso dello standard: crestiano, ledale “ditale” (cfr. detale a Viterbo), leticà, nderizzo, meróllo “midollo”, mesura, presóne “prigione”, securo [CNP], fegura, menuto, vengiuto “vinto” [CC], bbescino “garzone del pastore”, cecuta, mbreaco “ubriaco”, pezzutà “appuntire”, prencìpio “principio, inizio”, vecino [CLA], mesura [BS], cecara “cicala”, cecatrice “cicatrice”, edeficio “edificio”, epòtise “ipotesi”, letanìa “litania”, mejjorà “migliorare” [F], bbelàngia “bilancia” [VAS], fenomeno abbastanza diffuso nel resto del territorio (70). Può accadere che, nelle stesse condizioni, la e si velarizzi, come nell’etnico todésco [OT], in fonìle “fienile” [C] o in tonajje “tenaglie” [F], fino a raggiungere la massima chiusura in punzió “pensione”; oppure si dittonghi: stiennarèllo “matterello” [CARB] (71). La stessa chiusura in i può anche aver luogo nel caso la e appartenga a sillaba interna: paricchjuzzi [S], furistièri [CNP] (72).
Una tipologia grosso modo analoga ritroviamo anche nel caso della i ricorrente all’iniziale assoluta di parola. Può spesso esser colpita da aferesi: nduvinèllo, gnuno, gnorante, ndigne “insistere”, nvìdia [CNP], delìzzie “itterizia” [CC, F]; oppure evolversi in o: omuto “imbuto” [CNP], onnèsto [CHIA, VAL,VAS], in u: uncènzo “cipresso” [S], ovvero in a: annèsto [BOM, CO, OT, VI, passim], bbadènte “bidente”, sarringa “siringa”, scarpió “scorpione” [F] (73).
Pari instabilità dimostra la stessa vocale all’interno. Allineandosi col toscano, tende ad aprirsi in e: avvelizzióne “avvilimento”, cecala, fenì, nderizzà, pesèllo, recòtta, redìcolo [CNP], all’anderitto “in linea retta” [F], l’odonimo lo deritto [CLA]; si labializza in o: ciovétta, ciovile; cioétta [CT, OR, OT], perfino in u: ciuvitta, ciuitta [CNP, S], ciuétta [CC, F], fuscèlla “fiscella” [BS, F], sguluppà “sviluppare” [S]; passa al grado medio: trafòjjo “trifoglio” [BS] (74).
Il comportamento della voc. posteriore semichiusa non differisce da quello delle precedenti. Infatti, è soggetta ad aferesi, come in récchja “orecchio” [CC, CLA, CO, CSE, F, N, OT] e nel pronome gnïuno “ognuno” [S] (75); si chiude ulteriormente in ulìe “olive” [OT]; passa ad a in antano “ontano” [F] e andano [CC, CNP] (per caduta della laterale interna di alnetanum), pammudòro “pomodoro” [CCA], canòcchja “conocchia” [CSE], pàssoro salutàrio “passero solitario” [F] e addóre “odore” [F, VAS] (76), fenomeno quest’ultimo molto esteso nel Meridione; passa ad e: precurà “procurare” [F], precissió [F, R], precissióne [CNP], preggissió [CC], pretissióne [S, VAS]; oppure ad i: ribbusto [F], pricissióne [CNP, S], pritissióne [S]. In sillaba protonica interna, la labializzazione in u (tipica dei dialetti meridionali) è accertata in tutta la Tuscia: arrutino, cuntadine, munnà “mondare” [BS], dumanna, muménto, portugallo “arancia”, sgumarèllo “mestolo” [CLA]; cupèrchjo, cupèrta [VAS]; furchétta, fundana, furcina, lundano, pulènda “polenta” [CC]; fundana [OT]; pulènna “polenta”, pulacca “polacca, giacca corta femminile”, pustèma “pena, angoscia”, putà “potare”, sbrudolà, vurdà “ribaltare” [CCA]; mucialino “moscerino” [CO]; musciarèlla “castagna secca” [VAS] (77).
In posizione atona molto spesso ha luogo il cambiamento o > u: a Caprarola: ggiuvinòtto, guvèrno, lluntanato, sulaménte, truvava; Chia: luntano, vuléa; Canepina accusì, furmica, furminande “fiammifero”, pummidòro; Fabrica di Roma: avvucato, bburràccia, bburràggine, cuccutrillo “coccodrillo”, cunculina “catinella”, cuscènzia, duguménto “documento”, gerzumino, palummèlla “colomba”, pumata, punènte; a Bassano Romano: mùnnelo “fruciandolo, spazzaforno”, ecc.
La vitalità della tendenza metafonetica si dimostra più forte, anche in questo caso, nell’area in senso lato cimina, dove abbiamo raccolto una folta documentazione del fenomeno, per es. a Caprarola: munteròse “Monterosi”; a Soriano nel Cimino: bbuccuni, culuri, cunzijji, munèlli, puritti, surdati, surianisi; a Chia: bbuttuni, cuntinta “contenta”; a Canepina: vuristiéri “forestieri”.
Per quanto concerne il comportamento della u all’iniziale di parola, un esempio della caduta totale si ha in cellétto “uccellino; pène (infant.)” [F] e in scèlle “uccelli” [P]. A parte l’aferesi, di frequente si verifica la trasformazione in altre vocali, come per es. avviene in: ancino “uncino” [BS], mocciato “fuggito” [VI], ocèllo “uccello” [CO], óndo “lardo”, aógne “ungere” e aóndo, ógna “unghia”, omidità, polita, pontéllo [CNP]; lopino, oncino, tolipano, locìa “Lucia”, polì, ponchelata “colpo di pungolo” [CLA], gónto “unto” [CCA], ontà “ungere” [BOM] (78). All’interno della parola, la stessa vocale, allineandosi coi dialetti toscani, si allarga in ó: ggiónco, ggioncata [F] e jjongada [CNP], coscino [CARB, CNP], vocata “bucato” [CLA] (79).
Continuando il processo di monottongazione subìto dai dittonghi latini, per cui si giunse a sòma, anche AU protonico della sill. iniziale si trasforma, come avviene nel sost. cólto di bassa frequenza aotunno “autunno” [F], più spesso semplificatosi in otónno [R] e atunno [CC, VAS]. Lo stesso accade a Soriano nel verbo omentà [S], nelle forme civitoniche: umendà (80), agusto “Augusto”; nei neologismi atomòbbile [CC, VAS], atobbusse, atomàtico [CC], otobbusse, otomàtico, otomòbbile [F]; in bbalustra “balaustra” e nnagurà “inaugurare” [F] (81). Identica riduzione ha luogo per EU: rumatismo [F], utìzzio “Eutizio” [S]. Si spiega così l’importante reliquia lessicale còlo “cavolo, verza” [BO, F, GC, MF], che ricorre anche in umbro. Per Canepina, ricordiamo le forme metatetiche parùa “paura” e sparuacchjo “spauracchio”; accanto alle epentetiche làvoro “lauro” [CO], l’agg. źźàvoro “di carnagione bruna” [CC] (anche a Proceno), rivùzzala “ruzzola” [CCA] (82).
Per assimilazione, le vocali e, i, (talora a) si labializzano in u, o. Oltre il già menzionato fuscèlla, rientrano nel novero vossica “vescica” [CLA], bbossica [F] (83), fronchéllo “fringuello” [CARB], frunghèllo [F], fronghèllo [CNP], zzobbibbo [VAS]; la vocale si conserva invece intatta in dimane [S], dimà [C, F, VAS], chiduno “qualcuno” [CC, S].
Nel caso di parole trisillabe o polisillabe, le vocali delle sillabe mediane sono esposte ad ettlissi, come in bbarlòzzo “barilotto” [CLA, CNP, MF, S, VT, passim], bbarlétto / bbarlòzza / bbarlozzétto [GC, T], carco “carico” [CLA], òpra, orlòggio [CNP, VT, passim], vantre “voialtri” [VAL], satra “satira” [CCA, F], vipra [BO, CLA, MF, OR, V], lupri “luppoli” [OR] (84). Al contrario, non di rado si constata un’epentesi vocalica davanti a vibrante: bbiritòzzolo “bernoccolo” [F, VSG], bbiricòcheli, piricòchili “albicocchi” [CNP], piricòcolo, libbaruni “libroni” [S].
Un tratto differenziante, ma che si ritrova nel toscano meridionale, in umbro e altrove, è il passaggio del nesso -er- in sillaba interna ad -ar- , come avviene in chjàcchjara, venardì [CARB, CCA], bbevaróne, ciarvèllo, musaròla, peparóne, pórvare, povarétto (85). Risponde a questa tendenza la modifica che colpisce la numerosa serie degli infiniti in -ere, i quali, trasformati in -are, sono sottoposti ad apocope. Nel registro più conservatore sono tuttora usate su ampio raggio forme del tipo: accènna “accendere”, bbéva “bere”, èssa, pèrda, rida, strégna “stringere”, véda; sìa “sedere” [CHIA], nàscia [F], pàscia [C]. La serie seguente dimostra la sistemacità del fenomeno a Ronciglione: lèggia, pènna “pendere”, riccòjja, scégna, séda, véda; e a Caprarola: bbéva, cada, chjèda, còcia, combatta, confónna, conóscia, contiéna, mantiéna, métta, mógna “mungere”, mòva, nàscia, pèrda, piagna, rida.
La stessa vocale e, seguita da vibrante, anche quando non cade, subisce mutamenti, passando ad a: sòciara, càmmara [CNP], oppure ad o: cocómmoro [S], màscoro “persona mascherata” [CNP] (vd. infra l’armonizzazione vocalica)(86). In tutta l’area mediana della penisola, è molto diffuso il passaggio della a, in questa posizione debole, ad altra vocale: bbómmela “bombola”, pónchelo “pungolo” a Caprarola, tévela “tegola”, tómmela “tombola” a Bassano Romano, bbòssilo “mortella”, canipùzzilo “puzzola”, ghjàvilo “diavolo”, jjàcchilo “bastone del correggiato”, lópilo “luppolo”, rapónzilo “raperonzolo”, rùscilo “pungitopo”, zzìfilo “piffero” a Capranica. Si verificano però varie oscillazioni, come si nota nella serie: sàbboto, sàbbito, sàbbeto, ricorrente in più zone. Per “ramarro”, abbiamo annotato da una località all’altra, talora nella stessa località presso fonti differenti, le forme: ràchino, ràcolo, ràghelo, ràgano, ràgolo, ràguelo, ràghino, ràgono; per la forma verbale “eravamo”, èrimo alterna con èromo od èremo; si ha tràppela a Carbognano e tràppala a Ronciglione (87). A Canepina abbiamo rilevato: sàbbato e sàbbodo, cànipe o cànipa; accanto a stòmmeco compaiono stòmmico e stòmmoco. Nella provincia, oltre fégoto [CNP, VI] (88) e fégheto [CARB], ricorrono le forme, dovute a metatesi, fédigo [S], fédico [VAS], fético [BT, R, S], fétoco [CNP, MF]. L’oscillazione in questione risulta chiaramente dalle attestazioni nel territorio per “foglia della vite”. A parte la dissimilazione della nasale in laterale, osserviamo la presenza, in luogo della forma dominante in -ana (pàmbana e pàmpona a Canepina), di una serie -ina e di una folta in -ena, accanto al maschile pàmpono [CSE, G, R] e pàmpeno [BS, C] (89).
Altrettanto fragile ed esposta a mutamenti appare nella stessa posizione la palatale i come risulta dalla diffusa pronuncia ànatra. Abbiamo così la forma àseno [BS, CNP, anche di IC] accanto ad àsono [CLA] (a fronte del dominante somaro); per influenza assimilatrice della finale, troviamo jjènoro [L] o jjènnoro [CT] “genero”. Un cambiamento analogo risulta avvenuto in: stròliga “indovina” [CNP], stròlico [F], ècchime “eccomi” [CC]. È questa marcata tendenza all’armonizzazione a produrre forme come le seguenti: lìpara “vipera” [CNP] o vìpara [CHIA, F]; jjàccoli “funi del basto”, jjàccheli [CNP], jjàcculi [BOM]; àrburo [BOM], àrvolo: àrvili [CNP], àrbiri [CCA, S]; antìfana, bbéttala, mangévala “gramola”, miràchili, pècara, scàtele, tèssara, vìchili “vicoli” [CNP]; pèchere [C, CCA, CNP, VAL]; pìcchele [VI], nèspele [CNP] e gnéspala (plur.) [F], bbócchili “boccoli”, fégoto, nùmmoro, i plur. jjàccala “funi del basto”, trìbbili “tribolazioni” [R]. A Caprarola abbiamo raccolto la corposa serie seguente: àsono, càmmara, centèsomo, chjacchjarà, chjàcchjoro, chjàcchiri, dìsporo, fémmene, focàtoco “focatico”, fràtomo “mio fratello”, fràtoto “tuo fratello”, grànana “grandine”, jjéspala “nespole”, mózzoco “morso”, nepótama “mia nipote”, òmmono e òmmini, pràtoco, ràdaca “radice” e ràdeche, scìvala “scivola”, sémmala, sentìtomolo! “sentitemelo!”, sìndoco, spìroto, stómmoco, stùpoto, sùbboto, terràtoco, ùrtama; cui fanno eco a Capranica: pietràngala “stiaccia”, règala “battola”; a Civita Castellana: bbuàttala “bugia”, pupàttala “corolla schiusa del rosolaccio”, scrivàttala “scrivania”.
Esempi dell’opposizione di numero grazie all’armonizzazione sono costituiti a Vasanello da: càvala “rubinetto della botte” e càvele, còppolo “piccolo fungo”: còppili, gnùmmoro “gomitolo” : gnùmmiri, lénolo “lendine” : lénili, mónnolo “fruciandolo” : mónnili, nùmmoro : nùmmiri, tràppala : tràppele; a Fabrica di Roma dalla serie: àsala : àsele, bbrìscala : bbrìschele, bbùssala “cassetta per le elemosine” : bbùssele, bbùttoro : bbùttiri, casùppala : casùppele “casupola”, cùppala “cupola” : cùppele, fàrdala “falda” : fàrdele, fiàccala “fiaccola” : fiàcchele, fórcala “forfecchia” : fórchele, furmìcala “formica” : furmìchele, gàggiala “gazza” : gàggele, gócciala “goccia” : góccele, e il neologismo dòlloro “dollaro” : dòlliri (90).
Non di rado, nel registro più conservatore, si nota la netta inclinazione a dittongare la vocale postonica e più raramente protonica, specie se preceduta da velare, come avviene in pìcquelo [CNP], guarźó, miràquili, pietrànguala “stiaccia, trappola per catturare uccelli e topi”, pegueraro, pèguere “pecore”, quinata “cognata”, quitarra “chitarra”, racénquala “orbettino”, ratìquala “graticola”, spettàquili “spettacoli” [CLA], quajjo “caglio”, quatrame “catrame” [F], squìzzolo “schizzo” [VAS] (91). Un’idea più precisa dell’incidenza spaziale del fenomeno potrebbe fornirla la tabulazione degli esiti per il concetto “pergola”. In un gran numero di centri cimini [CLA, CNP, FAL, SU, VAL] e dell’altopiano viterbese fino alla Maremma abbiamo registrato pèrguala, mentre pare manifestarsi una preferenza per la forma pèrguela nelle vicinanze del Lago di Bolsena.
In finale assoluta di parola le vocali assumono spesso valore intermedio, per es. nella pronuncia del pron. personale atono ‘mi’. Abbiamo notato che a Canepina ciò si verifica regolarmente per le forme verbali, la cui e finale è pronunciata semiaperta: magne “mangi”, góle “cola”.
Occorre sottolineare piuttosto un noto tratto fonetico, a detta dei parlanti distintivo di larga parte della Tuscia (vd. cartina 1), cioè le forme maschili plurali del tipo: le cane, le parènte, ll’amice, e quelle ambigenere del tipo fijje “figli” e “figlie”. Si tratta però di un fenomeno nemmeno in questo caso esclusivo della nostra provincia, dato che ricorre anche in Umbria (92).
Quale esempio di oscillazione vocalica citeremo gli esiti per il numerale “due”: la forma dominante ovunque è dui, con dói [BS, C, CARB, CNP, VAL], di fronte alle forme con epentesi dóvi [CLA], duvi [CHIA] (93). La terminazione dei sost. masch. in -u (tipica di abruzzese, grossetano, umbro e marchigiano meridionali), pare fosse un tempo comune alla Tuscia viterbese, ma risulta oggi in scomparsa, tranne nei Cimini (94).
Un tratto centro-meridionale d’uso generalizzato è l’apocope di forme verbali (infinito, seconda plur. dell’imp.: tené!). In zone più ristrette riguarda i sost. terminanti in -ne, del tipo guarźó [BS, CLA], come avviene sistematicamente nel romanesco e nel marchigiano. È questo il caso di Civita Castellana, dove il fenomeno è vistoso in quanto dell’uso quotidiano (o pà “il pane”, o cà, a stazzió, o passó “palo”, a priggió, bbaffó, palló, e molte altre). Altrettanto avviene a Calcata (candó), a Nepi (traverzó), a Caprarola (dove abbiamo registrato: forcó, mattó, mprecazzió, ntenzió, strancecó “vite vecchia”, zzappó), a Bassano Romano (cianfró “uva selvatica”, pisciacà “tarassaco”, rafacà “tirchio”), a Ronciglione (i cà “i cani”, e mà “le mani”, orazzió, o pà “il pane”, bboccó, sinaló “grembiulone”), Carbognano (tortijjó “tamaro”, Tamus communis L.). Lo stesso avviene nelle parole in -aro del tipo pecorà, quelle in -ino / -ina (bbiscì “pastorello”, cecolì “foruncolo, fignolo”, laguźźì “aguzzino”, pedicì “piccolo sacco”, sardamattì “cavalletta”, tresumarì “rosmarino”, uvaspì “uva spina” [CCA]; bbiscì, cicolì, a gallì, e gallì “la gallina, le galline”, moscì “moscerino”, pedalì “calzino”, u vi “il vino” [BS]) e in genere parole piane: petè “pettirosso”, um pèzz’e lé “un pezzo di legno” (donde pezzelenata “bastonata”), a spianató “la spianatoia” [BS]; trippié “treppiedi, sgabello” [CLA].
Anche per il consonantismo ci limiteremo ad illustrare i fenomeni principali. Uno dei più diffusi nell’intera Italia centro-meridionale e tenace nella nostra subarea, è la lenizione consonantica, ovvero il passaggio generalizzato di una cons. sorda, in certe condizioni, allo statuto di sonora, come avviene per es. in férge “felce” [CC, CHIA]. Ecco alcuni esempi: bbebaróni “peperoni”, danavèllo, grugnale “corniolo” (Cornus mas) [CNP]; nzorgà “assolcare” [CLA]; ardare, ardézza, hò còrdo “ho colto”, carge “calce”, córgo “coricato”, fargo, sàrgio “salice”, sérgio “selce”, sórga “ratto di fogna”, sórge [CC]; cargagno, carge “calce”, carginàccio, càrgio, dórge, farge, fargo, sórgo “solco” [OT]; fórgo “distanza compresa tra la sommità del pollice e dell’indice divaricati”, fórda “bacino di raccolta delle acque” [S]; bbifórgo, i carge “i calci”, la carge, fargo, férge, pargo “palco”, sarge, sargìccia “salsiccia” [VAS] (95).
Il cambiamento sembra facilitato nel caso la cons. segua una nasale, come avviene per andigo [C], andre “altri” [CLA], gonvino “confino”, pulènda [CNP], pulènde [VI], ongino, langétta, mangino [CC]; in realtà la tendenza è più generale. Anche se il fenomeno è documentato su vasta area (96), è soprattutto nel territorio che dai Cimini degrada al Tevere che si evidenzia il massiccio impatto della lenizione. Infatti, a Canepina, entrano nel discorso quotidiano forme quali gavélli “capelli”, arvolédo “vigneto”, vingellao “acquaio, nicchia rettangolare scavata nel muro della cucina, ove si conservavano le brocche d’acqua”, vattilóndo “tagliere”, ùddimo “ultimo”, ecc.; come pure, a Soriano, sono usuali l’agg. ardo “alto” e il sost. gasseddóne “cassettone, armadio da camera diviso in cassetti”; aldalino “piccolo altare che si prepara in onore della Madonna nel mese di maggio”; a Vasanello bbàsdino “barbatellaio”; l’etnico cargadése “calcatese” a Castel S.Elia.
L’occlusiva bilabiale sonora b, all’iniziale assoluta, passa spesso alla fricativa v- , fenomeno già del romanesco antico (97). Ovunque per “acino” abbiamo naturalmente ottenuto la forma vaco; ad Orte abbiamo documentato il sost. maschile vìscio “serpente in genere”; a Caprarola invece troviamo parbabbiétili “barbabietole” che presenta assordimento dell’iniziale. Un altro esempio può esser costituito dal sost. vèrte [CNP] (98). Sparito quasi il referente – le rudi bisacce di canapa che si portavano sulla sella dell’asino per trasportarvi le vettovaglie – il termine sopravvive nel ricordo degli anziani, quasi come simbolo d’una precisa situazione storica. Tuttavia, anche in questo caso, è nella zona cimina e sue adiacenze che la documentazione si fa più densa e sicura: vatta “battere”, vattilóndo “tagliere”, viźźòga “bigotta”, vócca, voccale “boccale”, voccata, voccóne, vollì “bollire”, vótte, vràccio, vucada “bucato” [CNP], te vatto “ti picchio” [BS], vaccèllo “baccello”, varzo “balzo” (legaccio del covone), vatta “battere”, vicchjére “bicchiere”, vócca “bocca”, vótte e con dileguo ótte “botte”, vucata “bucato”, vullì “bollire” [F], vòtte “rospi”, vocata [CLA], varźo “balzo” (legaccio del covone) e la forma assimilata vaźźo [VAS], con metatesi di vibrante varciòlo “branca di albero” [CHIA]. Per “ombelico” ricorrono le forme bbellico [BS, CO], bbollico [CCA] bbullico [CARB, BS, F, SU], bbelìco [OR], bberlìcolo [OT] accanto alle lenizzate vellico [CC, CSE], villigo [CARB], vorlico, per assimilazione vorrico [CLA] (99).
La velare sorda, davanti a vocale posteriore, resta immutata in casi come cujja “coglia”, còccia “buccia” [CNP] (100), ma spesso si sonorizza, sia nel capoluogo (gójjo “matto, bizzarro”, guasi, gàbbala “imbroglio”, gabbarè, gattivo, guprì, gamèllo “cammello”), sia nei centri minori (ganassa) (101). Il fenomeno si verifica sistematicamente nella zona che predilige tale soluzione, tanto da costituirne un tratto caratterizzante della pronuncia: gaźźóni “calzoni”, gasalandi “contadini abitanti in campagna”, gambagna [CNP], gallóso “calloso, pieno di calli”, gàppia “cappio” [F], gallo “caldo”, gane [VAL], gujjo “matto” [CC, R], gauźźétta [FAL], górbo “colpo” [VAS], gujja “coglia” [CC]. Invece, ai confini con la Toscana e con l’Umbria, nel Bagnorese, la velare iniziale è soggetta addirittura a dileguo (anta “canta”).
A partire dal quarto secolo d. C. si mise in moto la palatalizzazione delle velari, cioè lo spostamento in avanti del luogo di articolazione. Testimonianza di tale stadio evolutivo si ha nelle forme chjarasa “ciliegia” [A, GC, O], chjerase [GC], chjaràcia [A, O, P] e chjaràcio “ciliegio” [LU], in opposizione al successivo dominante cerasa e ciarasa [MF, OR, VSG], ceraso [SM] e ciaraso [BO].
In molte parole che presentano iniziale consonantica geminata, la dentale è passata a fricativa interdentale e quindi a laterale, dando luogo a pronunce come le seguenti: e lléto “il dito” [CHIA, CNP], i lléta [S], i lléto [VAS]; e llènde “il dente” [CNP, VAL], i llènde, i llèspe “la vespa” [VAS], e llèndi “i denti”, éto, [S]; e lledale da jjanna “il cupolino della ghianda” [CNP]; lédo “dito”, i llèndi [OT] (102). Accanto a queste, compaiono altre forme con laterale scempia: lènde, léto [VI], lènte [VSG]. Anzi, l’affievolimento dell’iniziale può raggiungere in fonetica sintattica addirittura il dileguo: un éto “un dito”, li ètti “gli diedi” [CNP], éto, éta [VAL], èndi “denti” [OT], me s’è nfraciato un ènte “mi si è cariato un dente” [BT].
Un tratto fonetico che colpisce per la sua vitalità nei Cimini è senza dubbio la sonorizzazione della fricativa sorda che giustifica forme quali a Canepina vaggi “faggi”, vasióli “fagioli”, vronchèllo “fringuello” e a Vallerano i vvòchi “i fuochi”, vilo, viume, vièno. Il tipo pantàsima “fantasma” [CARB, CC, CCA, CNP, F, FAL, R, S, VAS], pantàsimu [SOR], d’origine greca, rappresenta invece uno sviluppo isolato di tipo meridionale (103).
Per quanto concerne l’occlusiva sonora davanti alle vocali a, o, u, pur restando per lo più inalterata in posizione intervocalica, tende ad esser pronunciata con occlusione tenue in molti centri. Ciò ha portato alla pronuncia come fricativa e talora al passaggio a jj. È quanto accaduto a Vignanello in jjàmmeri “gamberi” e a Vasanello in jjallo “gallo”, jjalluzzo “singhiozzo” e “varietà di fungo”, jjàcciala “gazza” [CCA]. Ciò può avvenire anche nel caso di occlusive sorde, come provano jjave “chiave”, jjara “albume” [CNP] e jjaro “chiaro”, jjòa “chiatta” (nei documenti: chioda) [OT]. A Civita Castellana si utilizza la serie: jjaccià “gelare”, jjàvica “chiavica”, jjòdo “chiodo”, jjòrlo “chiurlo”, jjottonìzzia “ghiottoneria”, jjude “chiudere”. La stessa cons. davanti a vocali palatali, segue la medesima evoluzione, per es. in jjèsa “chiesa” [CC], forma diffusa anche nel Meridione (104). Per “genero” quindi avremo jjènero [CNP, F, OT, R], jjènere [VAL], jjènoro [F], jjènaro [BT, BOM] e, con geminazione della nasale, jjènnero [CEL, VAL] e jjènnoro [O]; a Soriano anche ghjènoro (105). Altri esempi del fenomeno, che interessa un ampio spazio geografico, sono: jjocà “giocare” e jjògo, jjongada “giuncata” [CNP], jjummèllo “giumella” [CHIA, OT, VAS] accanto a gummèlla [C], jjèlo “gelo” [VAS]. A Civita Castellana abbiamo gnummèllo e il composto sagnachéllo (letter.: san Giacomello, nome di una piccola cappella), agiotoponimo (106). In armonia col Meridione, la j iniziale è restata, spesso rinforzandosi: jjó “giù” [B, CLA, CNP, F, S, OT], jjace “giace” [CT], jjòco “gioco”, jjucà “giocare” [B], jjàcchjo “giacchio” [CC], a Chia san jjunale “San Giovenale”, patrono della comunità. Per designare le corde del basto che servivano a legare la soma, troviamo ben salde le forme jjàccoli, jjàccheli, jjàcchili, jjàcculi, jjàcquili nel falisco-cimino (ma gnàccoli a Civita Castellana) (107).
Un prezioso documento della palatalizzazione della laterale iniziale è costituito dal toponimo mónte jjugo, non lontano dal capoluogo (108). Nel blerano ràfele “nasturzio”, la cons. iniziale di LAVE, -ERIS è passata per metatesi a vibrante (cfr. a Cervara làfanu), ràfolo (pl. ràfele) “punte tenere del tamaro” [VSG]; rùfolo “rafano” [T].
Come altre consonanti, la nasale si rinforza all’iniziale, spesso geminandosi (nnido, nnòdo) (109); mentre passa ad articolazione mediopalatale nei pronomi indefiniti, per cui, accanto ai frequenti gnènte e gnicòsa “tutto”, abbiamo gniciuno “nessuno” [FAL, SOR, VT], gnesciuno [CLA], gnessuno [CLA], la forma scempia gnisuno [OT]; lo stesso avviene nei sost. gnàgnara “fiacca, svogliatezza” [F], gnàccala “battola” [CNP], gnómmoro “gomitolo” [F, VT]; nelle forme verbali gna “bisogna” (diffusa ovunque), accanto a gnamo “andiamo”, gnava “andava”, gnémma “andavamo” [S]. Per “nespole” esistono, accanto ai plur. néspele, néspala [CNP], la forma dittongata niéspele [F] e quelle palatalizzate gnèspola [CO], coi masch. gnèspoli [G], gnéspili [CNP, G]; con sviluppo ulteriore, jjèspelo [BS] e jjéspala [CLA], jjèspela [BS] al pari di pujjéllo “manciata” [CCA, VSG].
La lenizione colpisce sistematicamente anche la occl. bilabiale sorda: bbadróne, bbajjao “pagliaio”, bbebaróne “peperone”, bbestadóo “pestello per mortaio da cucina”, bburgo “porco” [CNP]; bbaba, bbane, bbatata [VAL] (110); bbrocànico “procanico” [CCA] (ma frocànico a Canepina) (111). Si ha perdita dell’elemento velare in chéllo [R], chillo [BS], ca [CNP, passim]; l’iniziale si sonorizza in guasi [CC, CHIA, CLA, FAL, OT] (anche del romanesco) e guaci [S], guasci (alternante con quasci) [VAS], guistióne, guitarra [F] (112).
All’iniziale, la vibrante del prefisso re- o ri- di verbi viene spesso pronunciata con energia e preceduta da un elemento vocalico: areccòjja, aregalà, arègge [CNP], arifucinà “rovistare” [S] (113). Si vedano le espressioni per “sperone o cornetto della vite”: arrìsico [OR], arrésico [BS, CO, R, SU] oppure per l’avverbio “indietro” arèto [CHIA, CNP, VAL]. La prostesi è qui prevedibile, trattandosi di fenomeno generico ricorrente su scala addirittura nazionale. In altri casi la vibrante passa a laterale, come in lisipra “erisipela” [ROCC] e làffia “rafia” [GRAD], oppure assume una occlusiva velare sonora in gràffia, forma prevalente su largo raggio da Proceno a Vasanello, da accostare a tutta una serie di sostantivi: gràgnolo “ragno” [BOM], graviòli “ravioli” [VI], graviòlo [CC, OT, S, VT] (114), grìccio “rugoso, pieno di pieghe o rughe” [OT], gróndina “rondine” [VT], gruninèlla / grunninèlla “id.” [B, MF], grùcio “pungitopo” [OT], di fronte al più diffuso rùscio (dal lat. RUSCUS) (115). L’assordimento della velare si verifica a Chia: cranòcchja “rana”, a Calcata: cruci “pungitopi”; a Corchiano: cramìccia “gramigna” e cresimarino “rosmarino” (con successiva epentesi).
Generalizzato è anche il passaggio della fricativa dentale ad affricata, specialmente dopo nasale o laterale (zzinale, zzacco, zzóle, zzammuco); oppure, in luogo della sibilante può comparire l’affricata prepalatale sorda, come avviene in ciància “sansa” e nel top. cipicciano “Sipicciano”, per effetto di un’assimilazione a distanza.
La dentale sorda si sonorizza non solo tra vocali giungendo, come abbiamo visto, al dileguo nel caso di lo nnio “il nido” [BOM, BT, CHIA, CNP, VAL] (116), ma pure all’iniziale assoluta. Ciò si verifica sistematicamente a Vallerano: daccóni “fettuccine più spesse del normale”, darlo, dàscio “tasso”, davulino, dèsto “parti di scarto della porchetta – orecchie, zampe e coda – condite col grasso colato durante la cottura”, détto “tetto”. Il cambiamento in questione è tuttavia riscontrabile nell’intero territorio compreso tra il Cimino e il Tevere: dafano, dòfo “talpa”, dòdero “tutolo” [CNP], donzille “tonsille” [F, BO], dófo “tufo”, dùrbine [G], dubbercolósa [CO], dirà “soffiare” (del vento) [BT], delìzzie “itterizia” [CC, F, VAS], per aferesi ddormide “intorpidite” [BT] e diriźźido “intirizzito” [OT]. La dentale giunge al dileguo in jjicina “diecina” [S], jjàvolo “diavolo” [CLA] o ghjàvilo [CCA], nonché nelle interiezioni affermative eufemistiche jjàntene “diamine” [CLA] e jjàscuci “certamente” [OT] (con le varianti: diàsquici, diàspici).
Analogamente, in luogo della fricativa, troviamo l’occl. bilabiale sonora all’iniziale in bbampata [CNP], bbésco “vescovo” e bbessica “vescica” [OT], bbessica, bbessicante “lestofante, furbo” [VAS], bbezzà “avvezzare” [BS], bbalìcia “valigia” [CLA], bbossica [CCA]; o anche all’interno: m’abbìo “mi avvio”, arisbijjati “risvegliati, dèsti”, sbèntala, sbòdda “distorsione” [CNP], abbisà [S], sbezzà “svezzare” [BS], resbijjà [VAS], abbòrdo “avvolto”, malabbézzo “malavvezzo” [CCA], abbòjje “avvolgere” [CT] (117). Nei Cimini, il verbo bbelà (da AD VELARE), abbelà [VAS], si riferisce all’azione di ricoprire il fuoco per conservarne la brace durante la notte, per cui si dice: s’abbèla o fòco [CCA], bbelamo o fòco [BS], tòcca bbelallo ca cénnere [R]; cfr. il detto civitonico: coe bbucìe ce ribbéla o fòco. Oltre bbettina “vettina, giara di terracotta per olio” [BS, F], ricordiamo bbangà “vangare”, bbagóne, bbambada [CNP], il top. bbolzéno “Bolsena”, da VULSINII. In fonetica sintattica può dileguare, come avviene a Caprarola (e cch’ò dì? “che vuoi dire?”) e Vallerano (si ttu a sù “se vai su”), a Vasanello (órbe “volpe”, órga “fossa per macerare la canapa”), a Fabrica di Roma (ótte “botte”). Particolarmente frequente il dileguo sembra verificarsi nel caso di forme verbali atone, come succede a Gallese: òjjo “voglio”, òle “vuole”, o fà? (letter.: vuoi fare?) “vuoi vedere?; scommetti?”. In alcuni casi il suono vocalico ne esce rafforzato: succede a Bomarzo per le jjèspe “le vespe” e il derivato jjesparo “vespaio”.
In Toscana e altrove, la stessa fricativa, davanti alle vocali posteriori o, u, passa a velare. Lo stesso avviene a Canepina di cui, oltre il noto esito di góbbe “volpe” e goppicchjòtto, ricorderemo almeno guèro “verre” e gomèra “vomere”; cfr. guèrro [CC, OT] (118). Ovvero la fricativa passa a nasale labiale in mentrésca “ventresca, pancetta di maiale” [CLA, F] e in maco “vago” [CNP] (119). Il sost. mórgo “borgo” di Orte deriverà per assordimento dell’iniziale in fonetica sintattica: va a ccacà ggiù m mórgo! Inversamente, al posto della nasale troviamo di frequente la fricativa, per es. in vascèlla “mascella” [CLA, CO, R, passim] (120).
In parole germaniche l’iniziale w si evolve ulteriormente in gu-: guarnèlli “gonna lunga fino alle caviglie”, guarźóne [CNP, CLA], guarnèllo [F]. A Grotte di Castro abbiamo registrato da un lato l’inf. vardà, di larga diffusione nella provincia e comune al romanesco, dall’altro le forme uao “guaio”, uèrra, uardà. Alla serie si lega l’odonimo ronciglionese Via del gaffone (121).
L’affricata dentale tende a perdere la sua occlusione soprattutto nelle parlate della subarea cimina, dove il fenomeno, una volta generalizzato, è attestato tuttora per es. a Faleria e Calcata con: sia “zia”, sappa, sénne “mammelle”, sambi “gambe”, sòcco “ciocco”. In altri centri correntemente si usano le forme seguenti: sappa, sappóne [S], sitto “zitto” [BT, C, S, VAS, VI], sio e sia [BOM, BT, OT, VAL], séppa [VAS, VI], sóppe “zuppe”, soppània “zoppìa”, sòrfo, suppo, suppa [VAS], sampada “zampata” [FAL], sampana “zanzara” [BOM], sinna “mammella” [CNP, VAL, VI], suppa, sécca “zecca” [BOM, VAL], sappó [CLA], sanna “zanna” [BOM, BS, CCA], succa “zucca” [BT, VAL], sobbibbo “zibbibbo” [VI], seppatura “inzeppatura”, succa [BOM], samba, soppagna “zoppìa”, succa, soppicà “zoppicare”[OT] (122).
Passando ora a considerare il comportamento dei gruppi consonantici iniziali, per occl. velare + laterale notiamo che, accanto all’esito prevalente di chjara - sottoposto a lenizione nell’area falisco-cimina ed ortana: ghjaro, ghjòo “chiodo” [CNP], oppure ridotto in chìrica [CC, F, S, SOR], chirichétto [CC], cherechino, cherichino “chierichetto” [R], chirichétta “parte più alta di una pianta” [F], schiricà “mozzare la cima di un albero” [OT], e nel top. tuscanese Chirichèa - è attestato quello in affricata mediopalatale sonora, articolata con particolare energia a Faleria e Calcata (123). In altri centri cimini e fino al Tevere, questo gruppo passa a jj, come avviene in jjara “chiara, albume” [BT, CNP], jjaro “chiaro” [OT], jjàcchjera, jjamà, jjappa “chiappa, natica”, jjude “chiudere” [CNP]. Si osservi la seguente serie, che dimostra la vitalità attuale del fenomeno nel centro industrializzato di Civita Castellana: jjòma, jjave, jjappà “acchiappare”, jjamà, jjavaro “chiavaio”, jjórlo “chiurlo” e jjavellino “correggiato”. Comportamento analogo tiene il gruppo corrispondente sonoro, accordandosi con altre varietà mediane. Ovunque troviamo jjanna “ghianda” (anche se ormai alternante spesso con ghjanna); accanto agli agg. jjàccio e jjótto [BOM, BS, CCA, CO, F, G, R, VAS] (124) e alla serie jjaccià, jjottonerìa, jjottonìzzia, jjottonì [F], compare la rara reliquia jjéppa “zolla” da GLEBA [BT, R, S, VAS]. Ma non è ignoto nella Tuscia viterbese lo sviluppo di GL in nasale mediopalatale, del tipo gnómmero “gomitolo» [BS, CO, VIT], con le varianti gnómmoro [CC, CSE, FAL, OT, S], gnòmmuro [G], gnùmmero [CARB, F, N, R, SU], gnottì “inghiottire” [CC, OT, passim] (125). Le forme con rotacismo gràndola “ghiandola” e gròlia si rifanno invece a latinismi che sfuggono l’evoluzione spontanea.
Mentre ricorre sistematica la sonorizzazione dell’occlusiva velare sorda in tutta una serie di parole (quali gristiano [F] o grapao “capraio”, grapétto, greenźóne “credenzone, armadio per vestiti”, gróce, grétto “cretto” a Canepina), la stessa consonante tende invece al dileguo nel corrispondente gruppo sonoro, come avviene nel Meridione. Il fenomeno è ben attestato nei termini usati per designare un referente appartenente alla sfera domestica, la graticola: ratìquala [CLA], radìcola [BO, BOM, CHIA, LU], radìcala [CNP], ratìcala [CSE] (126). Ciò si è verificato sia in verbi come rugnicà “mugugnare” [CNP] e rattà “grattare” [SOR], sia in sost. propri della sfera agricola o della vita quotidiana (127). Infatti il concetto, fondamentale per l’economia agricola, di “covone” è reso con il sost. régna [BT, CNP, S, VAL, VAS] (128), minoritario nei confronti di grégna, con cui vanno radìccio “graticcio per seccare frutta”, il fitonimo ramìccia “gramigna” [CNP, VAL, S, VI, VAS], rónna “grinta” [S], rattacàcio “grattugia” [VAS], rufo “grifo del maiale” [VAS], gli zoonimi ranci “granchi” [CNP] e rillo “ghiro” [CHIA, VAL] (129). Nelle nostre indagini sul campo, per “grotta” abbiamo ottenuto concordemente rótta nell’area falisco-cimina, spesso con ulteriore restringimento semantico in “stalla” (cfr. il top. rottèzzia di Soriano). Sporadicamente, seguendo una tendenza meridionale, viene anteposto alla vibrante un elemento vocalico: orillo “ghiro” [VI] (130).
A parte l’evoluzione di BL > bj (in bbiastima [CNP, CC, OT], oppure in bbièda “bietola”, bbiòcca “chioccia” a Viterbo), comune al toscano e ai dialetti centro-settentrionali, sottolineeremo piuttosto la testimonianza del passaggio di tipo meridionale BR > vr: vràccio [CNP] (che in qualche caso evolve in fràccio, analogamente a quanto avviene per PR in frocànico “procanico”), vracciata [CLA], vròcchjo [CHIA] “fiocine” (131), vrace / vràcia [CLA]. Per “vischio”, accanto ad esiti prevedibili (visco, vìstio), abbiamo rilevato la presenza vitale di bbrésco, bbrisco, con inserzione di vibrante, da cui a Canepina e vvrésco e a Vignanello risco con ulteriore dileguo, il denominale mbriscà “invischiare” e il sost. bbrischitèlle “panie” a Vasanello (132).
Davanti a vibrante, cade anche l’elemento dentale presente nel gruppo DR: ritto [C, CNP]; inoltre, ha luogo nell’intera subarea cimina in misura generalizzata la sonorizzazione di FR in: vrade, vréddo, vréno, vrétta [CNP], vraciume “terra di castagno” [VAL] e di PR in: bbrado, bbrède [CNP], bbrònghise “cappotto” [CC] (133). Da DJ vediamo svilupparsi nella nostra subarea uno jod articolato con particolare energia: jjà, jjó, jjappè “in fondo, in basso”; a Canepina, accanto a diormì, compaiono jjormì e ghjormì “dormire” (134).
Davanti a fricativa dentale può presentarsi la prostesi vocalica, del tipo istésso [BS] e la forma molto diffusa listésso. Come nelle Marche e in altre zone, in gruppi consonantici con s iniziale, questa è articolata come fricativa prepalatale sorda (con pronuncia simile al gruppo sc- di scena), senza però che possa parlarsi nel nostro caso di applicazione sistematica: piuttosto pare trattarsi di un allofono sociale utilizzabile in un registro informale, di scarso prestigio perché di connotazione rustica. In questi gruppi consonantici si notano vari sviluppi. In misura massiccia è attestato quello di tipo meridionale di SF- a sp-: sponnà “sfondare”, spragne “frangere, schiacciare”, spulinà “fare la pulizia generale di casa” (specialmente per le feste pasquali), spilà [CC, CNP], spamà “sfamare”, spardo “asfalto”, spiatà “sfiatare”, spilacciasse “sfilacciarsi”, spilatino “sfilatino, filoncino di pane”, spogasse “sfogarsi” sportuna “sfortuna”, spòrzo “sforzo”, spraggellà “sfracellare”, spragassà “fracassare”, spuggitivo “fuggitivo”, spumà, spumicà “affumicare” [F], spurtuna “sfortuna” [S], spascià [CNP], sparinà “sfarinare”, spulinà [VAS], spranto “schiacciato, malridotto” [CCA], esito che arriva almeno fino all’Amiatino (Fatini 1953 riporta spascià, spilà, sponnà, spragna, spreciassi). Abbiamo inoltre il passaggio di SP a st: stégna “spengere” [CLA, CNP] e il part. pass. stinti [S]; di SV a sb: sbèndola “sventola” di Chia; di SV a sg: sguluppà [S]; di SK a st (anche in gruppo interno): stiaffo, stiuma, mùstio [OT], fìstio, rastià [CT], stièna [OR] (135).
Come in altri casi analoghi, per evitare sequenze consonantiche sgradite si ricorre spesso all’epentesi dentale: sdelogato “slogato”, sderuźźà “dirozzare”, sderaicà “sradicare” [CNP], sderadà “diradare” [BS], sdirazzà “tralignare”, sdelogato, sdeluffato “sfiancato”, sderajjà “deragliare”, sderenà “sfiancare, slombare”, sdilattà, sdimeźźà, sdimétte “consumare o distruggere quasi del tutto” (rif. a cibi, piante ed animali) [CC], sdeluntanasse, sdilabbrà “slabbrare”, sdilavà “dilavare”, sdiloccà “evitare che la gallina diventi chioccia” [F], sdilungà, sdimógne “dimoiare” [OT], sderuźźà “togliere la ruggine” [VAS], sdivorgato “insaziabile” [CCA] (136). Altre parole formalmente simili possono essere risultato di metatesi: sbinnònno, sbillungo [CC, OR, passim], sdisodà “dissodare” [F], oppure rispondere ad una scelta espressiva: sdeggiunà (letter. rompere il digiuno) “fare la prima colazione”, sdivagà “divagare” [F].
In posizione intervocalica si verifica con regolarità, in area cimino-falisca, sonorizzazione di occlusiva velare o dentale: ledale “ditale” [CNP], radìcola [CHIA], fadiga, fradèllo, mazzafédiga “salsiccia di carne di fegato suino e frattaglie” [CC], bbuga [OT].
La fricativa dentale in posizione intervocalica è generalmente pronunciata sorda nella nostra area (còsa, ròsa); tuttavia questa impressione di omogeneità meridionale andrebbe sfumata di luogo in luogo, dato che in più centri è dato udire una semisonora o una netta sonora; e non solo nell’Aquesiano, nella Teverina o nel Vulsiniese, ma addirittura nei Cimini, come testimoniato dalla pronuncia della cong. ‘così’ a Caprarola. In via eccezionale, a Soriano, passa all’articolazione prepalatale in guaci “quasi”. Ovunque, in accordo con l’uso toscano, nelle affricate intervocaliche l’occlusiva velare si evolve in fricativa, per cui péce si oppone a pésce con cons. intensa.
Abbiamo constatato la diffusa tendenza della fricativa labiodentale sonora v a scomparire in posizione intervocalica, come avviene in tutta la Tuscia per l’agg. pòro in protonia sintattica. Valgano gli esempi seguenti provenienti da Vasanello: bbéa, bbeùta, bbòo, caìcchjo “chiavistello del giogo”, chjae, coannìo “ultimo nato della covata”, coata, la fae “la fava”, faùccia “favetta”, mòa “muovere”, nòo “nuovo”, òo “uovo”, paóne, piòa “piovere”, pioiccicà “piovigginare”; uso confermato per Orte (proènna “razione di avena o di biada per le bestie”, róe “rovo”, scria “scrivere”, vio “vivo”) e per Capranica (guernà con la var. cursoria guvrà “foraggiare, portare il mangime agli animali domestici”) (137). Nella subarea di cui in particolare ci occupiamo il fenomeno è generalizzato, sia per sostantivi (guanile, da ‘covanido’, “ultimo nato”, detto di uccellino [VAL], faa [CNP, S, VI], faùccia, rui “rovi” [S]), sia per forme verbali (piuiccicà “piovigginare” [CNP], s’annula, [CHIA], l’imp. lète “lèvati!” [CC, OR, S]); ricordiamo anche: coàccio “covile”, frèe “febbre”, gattìo “cattivo”. Per “bere” predominano le forme bbéve o bbéva, ma ricorre quasi ovunque esclusiva o in alternanza anche bbéa (138). Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, citando gli esiti dialettali per “uovo”, “neve”, “uva”. Il cambiamento non è ignoto nelle subaree adiacenti, come dimostrato dal ricorrervi di sost. (lie “olive”, caccajjèlli “bacche di rosa canina” [G], un tempo oggetto di raccolta) e soprattutto di voci verbali di alta frequenza: cantaa [CSE], arrïarla “arrivarla”, mancai “mancavi” [OT], sapéono [C], éeno “avevano”, scria “scrivere” [BT], dicéa [G] (139) . Il fenomeno è attestato anche nell’idronimia con l’esito rio in: riomiccino, rifilètto, remajjó “rio maggiore”, rimòzzo [CC], riofratta [CO, G] (140). Citeremo infine il caso di “nuvola”. Risultano il sost. nùola [CNP, CSE, FAL, SLN, VI], con i masch. nùolo [VAL], nùuli [S] e nùili [FAL], accanto alle forme verbali annulasse [CHIA], nnulasse [BOM], nnüolasse [CSE], nuulasse [BT], annüolato [O], nnùolo [VAL], fino alle contratte: e nuli “le nuvole” [CHIA], nulo [BOM, BT, CARB, CLA]. Per eliminare lo iato vocalico determinatosi con il dileguo della fricativa, si reinserisce un’altra cons., la velare sonora. Ciò avviene nel sintagma civitonico rigortà la tòppa “rivoltare la zolla” e su largo territorio per nùgola e nùgolo (141).
Talora la v interna alla parola si assordisce in f, come in scifulata “scivolata” [BOM], bbafa, bbafaròla “bavagliolo” [VAS] e fuori subarea a Tarquinia (imbeferà “imbeverare”); in altri casi si verifica l’epentesi di v in iato: pàvolo “paolo, antica moneta”, càvosa “causa” [CNP], càvasa, gli antroponimi loviggi e lovisa [CLA], ovìdio “oidio” [G] (142).
Mentre la lenizione della dentale sorda del tipo caprolatto mondóne riveste carattere sistematico, il fenomeno opposto, cioè l’assordimento di sonora, appare sporadico, per es. in petemìa “epidemia”, petagna “albero giovane di quercia” [F], petalino “calzino” [VI], stùpoto, ncùtine “incudine” [CNP] (143). La rotacizzazione della dentale può illustrarsi con gli esiti da noi registrati per “midollo”: meróllo, dominante in maniera compatta in tutta la provincia, e il minoritario merullo [BS, SU]; con cui andrà anche piricó “gambo” [BS], da una base ped- ; cfr. peticóne [C, FAL, SU], pedicóne [VAS], pidicóne [CO].
Altro fenomeno fonetico che si verifica in misura costante nei Cimini e nel Falisco è il dileguo della dentale intervocalica. Riguarda in primo luogo le forme verbali: caé “cadere”, ndrìa “intridere”, rie, sié “sedere” [CNP]; caé e la contratta ché, i part. caùto e cuto, rìe, richjèa, chjèa “chiedere”, caìva “cadeva”, ria “ridere” [S]; a ssia “a sedere” [CHIA]; chjui ll’ùscio! “chiudi” [VAL]; me róe “mi prude”, rïémo “ridiamo” [BT]; caémo e chémo “cadiamo”, cuta “caduta”, séa “sedere” [BOM]; caé, chjèa “chiedere”, créa “credere”, ndrìa, scoinà “scodinzolare”, ria, róa “rodere” [VAS]; rìe “ridere” [OT]. Numerosi anche i sost. e gli agg.: bbeènde “bidente”, cóa, crua, nio, sèa “sedia”, nòo “nodo”, nnuo e ccruo “nudo e crudo”, paèlla “padella” [CNP]; goaróne “sottocoda, posolino” [VAL], jjòa “chiatta” [OT], a ppèe [R], chjòo, cruo, strae “strada” con gli alterati straàccia e straèllo, nio, nòo “nodo”, nuo, peàcchja “orma”, pièo “piede”, ruìźźo o roìźźo “prurito”, caitóra “botola” [VAS]; onnïada “nidiata” [VAL], i cchjòi [BT]; cóa “coda” [CT, S, VT], sèa “sedia”, ill’onnìo “il nido” [S], l’onnìo [CHIA], peàcchja “orma”, pròe (jje fa pròe) “prode, giovamento” [F, OT]. Come in casi analoghi, al fine di eliminare lo iato che si è verificato, s’inserisce talora una cons.: pròva “proda” e cóva “coda” (di ampia diffusione), nòvo “nodo” [CNP].
La medesima tendenza al dileguo si constata per la occl. velare sonora: tïano “tegame” e il dim. tïanéllo [BS], stréa “strega”, bbïùnźi “bigonce” [CNP] (144). Anche qui al dileguo può far seguito l’epentesi: ggióve “giogo” [BS], mentre l’assordimento si verifica in tutta la provincia nel sost. vaco “acino” (a CNP maco) e in ruca “bruco, fitofago della vite”. Per “maestro” abbiamo a Capranica majjéstro “maestro”, ma per uso proclitico ricorre anche e mmèstro a Bomarzo, Corchiano e altrove.
Le parole che in latino contenevano una velare sonora davanti a voc. anteriore, hanno assunto la pronuncia di ‘raggio’ dello standard; la caduta è invece alla base di forme come viàjji “viaggi” [CLA] o fai “faggi” [S]. Per il tipo “fragola”, troviamo le forme con fricativa: fràvola [CNP, R] e fràvala [CCA, CSE, F, G, VAL, VAS, VI], o con dileguo totale: fràola [BO, BT, OR, VAL]; con queste vanno rèvala “regola” e tévala “tegola” [VAS], tévola [OT], tévela [BS] (145).
Lo studio delle espressioni per “propaggine di vite” in uso nel territorio provinciale permette di seguire le sorti del suff. -ÀGINE, che è approdato all’esito di tipo toscano propana, su vasta area del Vulsiniese e Castrense, come pure nella Teverina. Nei Cimini tale uso appare sporadico, con propana [BO, CARB] e il metatetico purbagna [F], mentre prevale l’esito di tipo meridionale: propàjjene [CNP, CLA, S, VAL], porbàjjana [CLA], porbàggine [R], propàjjene [MF], propàggina [BOM], propàina [VAL], propàgnina [S]. Stessa evoluzione in vecchjàjjine “vecchiaia” [CNP] e fiaccàjjana “fiacca”, accanto a sbàjjana (Cirsium arvense) [CLA], fiaccàine [S], sartana “recipiente di terracotta a tronco di cono e senza manici, usato in cucina” [OT] (lat. SARTAGINE), forse lùjjine “favilla, scintilla” [BS] (146).
La palatalizzazione della laterale intervocalica è fenomeno documentato già per l’ant. viterbese (nel Trecento si pronunciava moino per “mulino” e jjuna per “luna”; cfr. il cit. top. mónte jjugo) (147), ma non del tutto esaurito oggigiorno, almeno per la geminata, se si pensa all’avverbio d’uso quotidiano mijjanne, mijjanni “non vedo l’ora che” (da MILLI ANNI) (148). Ricordiamo inoltre di aver registrato a Farnese cavajjóne per “cavallone” e a Villa S. Giovanni in Tuscia, Fabrica di Roma e Canepina l’antropon. jjonardo, usato in fonetica sintattica parlando del santo (san Leonardo > sallionardo > sajjonardo). In più località le molle in ferro del focolare erano dette mòjje [CE, LU, O], con opposizione vocalica a mójje “moglie”. Aggiungeremo per la zona cimina gli inf. strijjà “strillare” [CNP, VAL] (a Canepina con ritrazione d’accento anche strijja), il plur. gajjine “galline” [G], sujjóni “solleone” [F]; forse anche vujjicà “stuzzicare, agitare” di Bassano Romano (149). La rotacizzazione della laterale colpisce di preferenza quella contenuta nell’ultima sillaba dei proparossitoni, come nel caso di tòtero “tutolo del mais”, esito molto diffuso ovunque con varianti fonetiche (150).
Per quanto concerne le nasali, il prevedibile rafforzamento intervocalico di tipo meridionale ricorre su largo raggio, come provato da càmmera, commannà, commune, vennardì, sémmala (151). Ricordiamo almeno le forme: cocómmoro [CNP, F], òmmino derivato dal plur. [BS, CARB, F] e jjómmino [CARB, CNP], gómmito, vòmmito [CC]. Invece è dovuta ad assimilazione la serie seguente: cénnere, tennina, pennènte, sìnnico “sindaco” [F]. Accanto a cunìcchjo “cunicolo” [B, GC, VAS, VT], troviamo per dileguo la forma cuìcchjo [CE]. In schizzignóso “schifiltoso” ha avuto luogo palatalizzazione e in ùndico “unico” [MF] è intervenuta l’epentesi di dentale. Ritroviamo la stessa tendenza alla geminazione per le occlusive bilabiali, non solo nei proparossitoni (sàbboto, débbido, sùbboto), ma anche in un ossitono come libbertà o nel frequente dóppo. Il fenomeno inverso, la degeminazione cioè, universalmente attivo nelle varietà di romanesco e laziale, interessa un gran numero di centri: quatrini, màchina, piàciono, ceròto, ucèllo, camèllo [CC], simia [S]; mentre quella in particolare della vibrante, che riflette un chiaro comportamento meridionale, ricorre soprattutto nella subarea cimina. Possiamo almeno citare, da Canepina: bburóne, caro, guèra, maronéto “castagneto di marroni”, tèra, tóre; cui aggiungiamo, da Vasanello, la folta serie: bburàggine, bbaròzza, carùcala, cèro “cerro”, coréggia “correggia”, fèro, serécchio “falce messoria”, vère “verre”, moròide “emorroidi”, parucca, caràccio, maràccio “pennato”, morìcchjo. Nei centri vicini: serècchjo [N], tóre [CHIA, N, VAL], teréno [VAL], curèggia, toróne [VI], carèllo, careggià [CC], il sintagma a róma [CHIA]. Lo scempiamento pare costante in alcuni centri [BT, CSE, N]; altrove invece l’uso è oscillante (152). Il dileguo totale della vibrante è sistematico a Canepina per le forme suffissate (cucchjao, macellao, pao, stricatóa “cesta a due manici”, strongatóo “lunga sega per tronchi, azionata da due persone”) e ha luogo in più località della stessa zona, per es. a Bassano in Teverina (bbio “piuolo”, da piro). La fricativa dentale geminata ss si palatalizza come in róscio: prèscia [CNP, VT, passim], nisciuno [F, PR], nesciuno [CLA]; in rari casi si conserva intatta: vossica [CLA], bbossiga [CCA], bbessica [OT], o si scempia: nisuna [CHIA]. Per assimilazione del gruppo occl. velare + s abbiamo forme come lessìa “lisciva” [CNP, F, VAS], assógna [BS,VAS]; oppure si verifica l’evoluzione in fricativa palatale: lescìa [F], sciuttà, scéjja, sciapo [CNP], scella “ala” [MF, VAS] (153).
Davanti ad altra cons., la laterale molto spesso si rotacizzza in tutto il territorio provinciale (sordato, marva), oppure si nasalizza in andro [CC, CNP] o antro [CLA, F, VI] (154), allineandosi su soluzioni genericamente centro-meridionali. Talora, subìto un processo di velarizzazione, raggiunge il dileguo per assorbimento della laterale. Da qui le forme: puce “pulce”, pucino “pulcino”, pucinèlle, sàvia “salvia” [CNP], vòta “volta” [G, SOR], atru “altro” [SOR], puci “pulci” [BOM], pucino [S], puce, pucino [OT]; di contro: flac “frac” e blanda “branda” [CCA]. Nella fascia settentrionale a contatto con la Toscana, ricorre sistematica e vitale la palatalizzazione della laterale preconsonantica, che si ha a Firenze in sòiddo “soldo” e a Pitigliano in sàiddu “salto”, con allungamento e sonorizzazione della cons. successiva (155). Un fenomeno strettamente collegato a questo è l’assimilazione, di tipo meridionale, della laterale alla cons. sonorizzata, del tipo addro “altro”, ampiamente documentato in varie zone della provincia. Lo stesso fenomeno lo ritroviamo tenace a Canepina: adda “alta”, aźźà “alzare”, cagge, gaźźóni, góbbe “volpe”, mavva, zzòvvo “zolfo”, nzovvà. In altre località dei Cimini si ha: dógge a Vignanello; a Vallerano: sciòddo, còdda “colta”, scóźźi “scalzi”, bbòźźo “bolso”, vòdda, fagge, faźźo “falso”, bboggióne (da ‘pulcione’, fitofago); in vari centri del Falisco: vaźźo “legaccio del covone” e voddarèllo “arcolaio”; a Vasanello: addézza, bbòzzo, i ccagge “la pedata”, la cagge “la calce”, còdda “colta”, códdra “coltre”, fagge “falce”, risbaźźà, scazz’e nnuo “scalzo e nudo”, scaggettà “tirare calci”, spòddo “spoglio, nudo”, struźźo “sobbalzo” (156).
Nella zona periferica sud-orientale a contatto con la Sabina e con la provincia di Roma (Calcata, Faleria, Sant’Oreste, ecc.), da GL si è sviluppata l’affricata mediopalatale sonora (o la sorda corrispondente), oppure uno jj molto energicamente articolato: fijja, pijja, strijja, pajjaro, spòjja, strijjà, tajjo; eccezionale la forma ragno “raglio” di Bassano Romano. Dalla Toscana al Meridione, dopo nasale, gl passa a ngj e alla nasale mediopalatale intensa di cignale, ógna, cigna, signózzo “singhiozzo”. Anche se l’assimilazione nd > nn (del tipo quanno, mónno) rappresenta uno dei tratti centro-meridionali più generici, appare notevole la vitalità con cui si manifesta tuttora coinvolgendo parole appartenenti a differenti sfere semantiche. A parte tipi di alta frequenza, come annà o cannéla, menzioniamo almeno gennarmi [CLA], pulènna [CCA], ùnnice “endice” [S], ùnnice “undici” [CO], quìnnece [OR] e quìnnici [CSE], sicónna [CHIA], dimannà [CSE] (157). In luogo della geminata, compare a volte la cons. scempia, specie in proparossitoni: sìnoco “sindaco” [CLA], lénice [R], énice “endice”, lénali “lendini” [BOM], ènice [CT, OT], ènece [VSG]. Analogamente succede per i numerali unice o ùnici [BOM, CCA, CLA, F, OT, VET], quìnici o quìnice [BOM, BT, CARB, CCA, CHIA, CLA, F, OT]. Lo stesso discorso vale per l’assimilazione mb > mm, anche se questa compare ormai in misura minore, limitatamente a locutori anziani. Varrà la pena darne una rappresentativa esemplificazione per l’area cimino-falisca: cammià, palommacce, ammasciata “mandria”, commatta [BS, F, R], immasciata [S], cummatte [F], settèmmere [CCA, F], bbómme, il neologismo bbommelaro “rivenditore di bombole a gas”, rimmammisse “rimbambirsi” [CLA], novèmmere [CO, F, CSE], dicèmmere [CSE, F], se remmócca “si rimbocca, si colma” (rif. al vino nella botte), tómmela “tombola” [BS], gamma, ómmara “ombra”, pammòccio “bamboccio” [CNP], jjàmmeri “gamberi” [VI], gàmmiro “gambero” [CCA], bbammace [CC], gàmmaro, commatta [CHIA], gamme [OT], mmoccà “imboccare” [CLA] e ammàttise “imbattersi” [S], da cui le espressioni: l’hò mmattuto “l’ho incontrato” (udito a Nepi), hà mmattuto bbè a ppijjà mmójje [F] e ho mmattuto l’amico sio “ho incontrato il suo amico” [CCA] (158).
Come esempi di assimilazione regressiva citeremo il recente bbabbù “bambù” a Soriano, rubbazzo (da rumpazzo) “grappolo” [BS, CCA], arebboccasse “rimboccarsi” [CNP] e abboccà “entrare” a Montefiascone. In posizione iniziale la nasale geminata si è poi a volte scempiata, come avvenuto in omuto “imbuto” [CNP] (159), o negli esiti per “pevera”, ricorrenti con numerose varianti: mottatóo / mmottadóo [CNP], mottatójjo [S], mottatóre [F, VAS], immottatóre [OT]. Oppure si vedano le forme per “basto”: accanto alla dominante imbasto [CARB, CCA, CO, F, G, N, OT, T, passim], compaiono mmasto [BS, BT, CC], masto [FAL], ammasto [CNP, VAS], immasto [VI], ommasto [CLA, VAL, S] (160).
Un altro esempio di tale variazione forniscono gli esiti del longobardo WIFFA “segno di confine”, con cui si indica la pertica di segnalazione infissa sul campo da traguardare. A parte bbiffa (anche del lucchese e pratese), troviamo mbiffa o mmiffa nella Teverina, miffa [GC, L, O, SA, V], coi verbi corrispondenti mbiffà, miffà. Molto diffusi sono cagnà e cagno (vd. ncagne “invece di” a Lubriano e ancagno de a Montefiascone). Non mancano di colpire creazioni come cambra “camera” e cocómbro “cocomero” di Vasanello, a pizza chi ppombidòro [VI], gnombaratóra “arcolaio” [C], oppure, in altre subaree, sémbala “semola” [M], nùmbere [BAGN], scìmbia “scimmia”, vellembià “vendemmiare”[CT, MF] e il più frequente vendembià [BR]. Evidentemente rappresentano una reazione di ipercorrettismo nei confronti di questa generalizzata tendenza assimilatrice (mb > mm); alla stessa stregua di minorènde a Canepina, tóndo per “tonno”, céndere “cenere” nel capoluogo o il neologismo minigónda “minigonna” udito a Bagnaia.
Sporadici risultano i casi in cui oggi ha ancora luogo l’assimilazione mb, mp > pp (a parte il verbo róppe “rompere” e derivati, possiamo citare coppare “compare, padrino” di Fabrica di Roma). La vitalità di quella nv > mm è invece rappresentata da un buon numero di esiti: immèrno [CARB, CHIA, CLA, CNP, OT, S, VAL, VI], mméce “invece” [OT], commaliscènte “convalescente” [F]; cfr. in fonetica sintattica: um moccóne “un boccone”, tu m mócca “in bocca”, um mòcco “un baiocco”, sam mittóre “san Vittore” [CNP]; mòcco, mentrésca, magabbonà “vagabondare” [F]; mòcco, moccà “entrare”, metrià “invetriare” da cui il sost. metriato “insieme di manufatti smaltati” di Vasanello; sammastiano “dolce pasquale a treccia con uovo lesso inserito”; il modo di dire: me pari o patalòcco de mignale (top. ufficiale. Vignale) di Civita Castellana; sammincènzo con cui si denomina un tipo di ballo popolare di un tempo, a Vasanello (161).
In posizione mediana, il gruppo ng davanti a voc. palatale passa a nasale mediopalatale, come nelle voci verbali arïógno “raggiungo” [BT], rignógne “ricongiungere i fili dell’ordito” [CC], gógne “ungere” [BS] e nei verbi, tuttora di alta frequenza su vasta area, mógne “mungere”, tégne “tingere”, spigne, strigne, piagne; anche in sintagma: ignó “in giù” [VAS], a ccapolignó “a testa in giù” [CC]; mentre nell’ornitonimo fronchéllo [CARB] e vronchèllo [CNP] s’è verificato un eccezionale assordimento di velare.
Nelle varietà centro-meridionali la nasale provoca la sonorizzazione della cons. sorda seguente. Nella nostra provincia questa reazione si verifica con intensità particolare nei Cimini e zone contigue: combare, cambà, cambagna, cómbrita “compera”, rumbazzo d’ua, ndignà “ostinarsi”, pónde, andico, ndrométtise “intromettersi”, ndartarito “ricoperto di tartaro” [CC]; cambana [CO], róngio “pennato” [N], réndo “dentro” [S], sèmbre [VAL], bbeènde “bidente”, llèndi, bbiango [CNP, VAL, VI], ngerasse “celarsi” [VI]; il fenomeno ha luogo anche in fonetica sintattica: n gristiano [VAL], llì n ghjèsa, ggiù n gitèrno (top.) [CC].
Anche se di norma gn, gm interno si sviluppa in nasale palatale (légno), tuttavia non mancano altri sviluppi fonetici comuni al Meridione. Infatti, per esprimere il concetto “legna da ardere” abbiamo documentato, nella subarea in questione, l’esito in nasale dentale (risultato dalla caduta totale dell’elemento palatale) léna [CARB, CHIA, CLA, CNP, F, R, S, passim]. La vitalità di questo tipo lessicale sarà da connettere al rilievo economico che riveste nella zona la silvicoltura. La stessa evoluzione presentano l’agg. préna “gravida”, il verbo nzenà “indicare” [CLA] e il sost. pl. prunga “prugne” [CCA, G], prunghi, prunga [F], bbrunga [CC]. Altro esempio è costituito dagli esiti quinato “cognato” e quinata “cognata” nella stessa subarea [CNP, CLA, CARB, CHIA, R, F, BT, OT] e nel Blerano [BL, VE, VSG].
La presenza della vibrante all’interno della parola provoca anch’essa conseguenze fonetiche nei gruppi che forma con le occlusive. Da un lato, come in Toscana e nel Sud, la sorda si conserva, per es. in soprano “sovrano” [B], “Dio” [CHIA] o in làcrima [VT], assumendo nel settore nord-orientale della provincia le forme di una vigorosa resistenza (162); dall’altro, opera in misura massiccia la sonorizzazione di provenienza settentrionale.
In posizione postonica, la vibrante interna di parola spesso si dilegua: arato, derèto, arrèto, lèpe [CARB], rastèllo [CT, VAS], aristèllo [CCA], arestèllo [BS]; in qualche caso si determina il fenomeno dell’epentesi come avviene in propilla “pupilla” [MF] ed elàstrico / àstrico [BS], làstrico [F], tràcchja “scheggia di legno” (in genere ovunque tàcchja) [VAS]; oppure quello della propagginazione: tresòro [CNP], sternardo “stendardo”, trisòro [F], ottróbbrere [CO], frèmore “femore”, preperino “peperino”, frottògrafo “fotografo” [BR], artrézzo [CT], e nel forestierismo neologico cartre “carter, copricatena della bicicletta” [OR]. Per “padre” e “madre”, in molte località resistono tuttora, limitatamente al registro familiare oppure arcaico, le forme senza vibrante mate [BS, CHIA, P, S, SA, VET, VI] e pate [BS, CARB, CDM, M, S, VAL], bbate [CNP] (163).
L’occl. velare sonora è scomparsa in fiara / fiala e fiarasse / fialasse (comuni al toscano antico, al romanesco e all’abruzzese). Alla forma lenizzata e metatetica frève di Fabrica di Roma e di Bassano Romano, corrisponde a Canepina, per dileguo successivo della fricativa, la forma frèe.
L’evoluzione di tipo meridionale rb > rv è rappresentata da numerosi sost., quali sòrva “sorbola” [CHIA, CO, G, N, passim], sòrvi e sòrva (alberi e frutta) [F], forvicétte “forbicine” [VAL], àrvili, garvóne, garvonao, èrva [CNP], còrva “cesta” [CLA, F, VAS] e dagli agg. cèrvo “acerbo” [F], cèrvio e cerviòtto “id.”, tùrvio “torbido” [S], tùrvido “id.” [F], cèrvio [BS, CC] (164). A queste forme si collega il top. di Chia la ficarva (per la presenza di una varietà di fico che produce frutti di color giallo chiaro) composto da FICUS + l’agg. ALBA; cfr. le fico arve [S], arvèlle [CC], fico ficarve [CO]. Il gruppo lv può subire assimilazione dando luogo a: sévva [CNP, O], sàvia “salvia” [VIT]; vocalizzazione come in saivvàtico [CDM], saivvàteco [L]; oppure palatalizzazione nelle notevoli forme del registro arcaico: séjja “selva” e pójje “polvere” di Vignanello. Regolari le forme sonorizzate sórgo [BS, CCA, CHIA, CSE, R] e màrdala “martora” [CNP, F] (165). Sporadica compare invece nella nostra area linguistica l’assimilazione rt > tt, rn > gn, per cui possiamo tuttavia citare il sost. cògna “corniole” di Gallese e l’antroponimo bbattolomèo “Bartolomeo” a Montefiascone.
Circa il comportamento della fricativa dentale, noteremo che, in accordo con le regioni centro-meridionali, subisce ovunque affricazione passando a z (nzómma, nzalata, n zacco), con sonorizzazione nella subarea: guarźó [BS, CLA], urźa “ronzio” [S], nźème [CNP]. In forme come cosijjo “consiglio” [MF], cusijjo [VT] e mésa “madia” (166), termine questo caratteristico delle subaree vulsinia, castrense e blerana, si è verificato l’ammutolimento della nasale del gruppo interno; negli inf. di verbi riflessivi ha luogo ovunque assimilazione (vestisse).
Per il gruppo MN proponiamo quali esempi di assimilazione il pron. óni “ogni” a Bagnoregio (cfr. ant. aretino óno), il sost. sòmmio “sogno” [CE, MR, TU, VT], il corrispondente verbo sommià [CE] e l’imp. scionnàtive! “svegliatevi!” a Sipicciano, da una base EX-SOMNIARE (cfr. a Piansano sciornà e il tosc. scionnare) (167). In alternativa, si pongono a Montefiascone risombiallo “risognarlo” e sòmbio a Viterbo.
Ricorrendo all’epentesi di d / b si evitano incontri consonantici sgraditi, come avviene in cambra “camera” [VAS] (168). In vari centri ritroviamo lo sviluppo, anche laziale e abruzzese, di vi, bi, di > jj, che giustifica forme verbali del tipo ajjo, ajja [CNP], jjène “viene” [MF] o sost. come jjicina “diecina” [S], séjja “sedia” [VAS], le séjja “le sedie” [VI], dilujjo “diluvio”, jjàolo “diavolo” [B]. Tale orientamento meridionale è dimostrato anzitutto dalle forme per “oggi”: òjji [BS, S, VAL], òjje [CNP, MF, VAS], òi [CHIA], come dall’avverbio jjó e derivati. La vitalità del fenomeno è testimoniata da un folto numero di verbi e sostantivi: appòjjo, bbòjjo, cariejjà “trasportare”, dejjuno, piajja, scurejjà “spetezzare”, viajjo [CNP]; assajjà, carià “trasportare” [CLA]; carrejjà, i ffao : i ffai, manejjà, scurrejjà [S]; viajji “viaggi” [CHIA]; carià, frìa “friggere”, fujjì “fuggire”, manijjà “maneggiare”, marijjà “meriggiare”, sajjétta “saetta”, strujja “struggere, sciogliere” [F]; frìa “friggere”, marìo “ombra, frescura”, rajjóne [BS]; dïuno “digiuno” [SA]; carejjà, dejjuno, pojjara “sequenza di colline o poggi”, scurèjja [VAS]; manejjà, lèjje “leggere”, carrejjà, maése, pòjjo, assoméjjà [OT]; carià, manià [CCA]; pujjèllo “manciata” [BS, CCA, VI, VSG]; oltre scorrèggia, troviamo a Blera curéjja, curijja, il verbo curejjà e il sopr. curejjóne (169). Per “meglio”, ovunque si ode mèjjo, cui è da accostare il raro pèjjo (anche dell’ant. umbro) di Vallerano. Resiste nell’uso l’antico top. bbagnorèa “Bagnoregio”; accanto a piàggia sopravvive lo sviluppo meridionale in piajja e pòrt’i piai [CNP].
Senza insistere sul tratto tipicamente meridionale li > j, predominante ovunque con forme del tipo fijjo, pijjà, pajja, fòjja, faremo presente che compare, sia in prossimità del confine toscano (170), sia nella zona sud-orientale della provincia, la mediopalatale intensa del tipo fìgghja [C, CHIA, FAL, SOR]. Nel Falisco, a Civita Castellana, si pronuncia una semiconsonante non rafforzata come in fija, ma l’esito di tipo romanesco fio “figlio”, con dileguo totale, pare interessare la fascia confinante con la provincia di Roma in modo particolare; tuttavia, tale riduzione ulteriore l’abbiamo documentata non soltanto a Capranica nelle forme verbali svéeno “svegliano”, risvïà “risvegliare” e il sintagma un cio de nòcchja “una nocciola”, ma anche a settentrione, a Bagnoregio, in cii “cigli” (cfr. il top. muntïóne).
Il passaggio a nasale si ha nell’imperativo dénnini “dagliele” e dìnnini, di connotazione arcaica, e nell’espressione dìnnini che nin’hò ddétto! “diglielo che gliel’ho detto” [BS].
Lo sviluppo mj > gn è testimoniato dai termini succitati per “covone”: grégna e régna, da sparagno [CNP] e dal verbo sparagnà [CNP, F, S] (in alternanza con sparambià; ma guadàmbio ad Orte). I termini per “vendemmia” e “vendemmiare” forniscono al riguardo un quadro complesso. Prevale il tipo vennémmia, con il verbo vennemmià, accanto a quello con laterale vellémmia e all’altro derivato da ‘vigna’: sdivignatura, divignà, sdivignà. Il tipo dissimilato con nasale palatale (velegnà, velégna) copre invece superficie meno ampia: alcuni centri della Teverina, parte dell’altipiano viterbese, subarea cimina con puntata verso il Tevere. L’articolazione della nasale gn è più o meno intensa a seconda dei centri ed esiste anche un esito in nasale dentale con nénte [O], nicòsa [MF], nnicòsa [BS].
Nella forma verbale sàccio [CLA, CNP, OT, SOR] si ha un esempio di palatalizzazione di tipo meridionale del nesso pj, come in pòccia e pucciòtto [VT]. Per il nesso rj la soluzione di tipo romanesco in -aro ed in -óro (fornaro, magnatóra), ad eccezione di qualche centro prossimo al confine toscano (per es. Piansano dove troviamo somarajjo), ha conquistato l’intero territorio dando luogo a forme come: ggennaro, ara, sterratóra “ralla”, cottóro; bbeatóro “abbeveratoio” [S], ggiocaro “saltimbanco, giocoliere” [CLA], calamaro, fornaciaro [MF]. Tuttavia, non mancano attestazioni vistose di forme senza vibrante, di modello toscano, sia nella fascia settentrionale della Provincia, sia nei Cimini. A Canepina, questa costituisce fino ai nostri giorni la soluzione normale: ammastao “bastaio”, bbestadóo “pestello per mortaio da cucina”, cornaa “vicolo con piazzetta”, gallinao, strigatóa “cesto a due manici, paniere”, molinaa, delao. Lo stesso a Vasanello: acquaracciao “lavatoio”, mastao “bastaio”, pajjao, pataccao “fanfarone”, carcatóa, oncinao / uncinao “cavilloso”, orgao “addetto alla macerazione della canapa nella fossa o vasca”, tortóe; anzi, il processo giunge fino al dileguo della finale in panatà “parietaria”. Ciò avviene sistematicamente a settentrione, a Bagnoregio - dove abbiamo raccolto pajjao, pipinao “chiacchiericcio”, stufaòla “stufaiola”, eneraa “ederaia” (pianta d’edera), tortóo “bastone”, bbattistèo “battitura” (anche del toscano) - e fino al Trasimeno.
Mentre altrove il nesso sj segue la tendenza meridionale con l’evoluzione in fricativa palatale (faciòle), la presenza a Canepina di camìsa “camicia”, caso “cacio” e vasiólo “fagiolo” è testimonianza preziosa della fase più antica, con fricativa dentale sorda come in cirasa, più nota attraverso la forma cerasa prevalente nella provincia.
In carche [CLA, CNP] s’è verificato lo stesso regolare assorbimento dell’elemento labiovelare avvenuto negli avverbi di luogo cajjó, jjocchì [CLA], nei composti caddecchì, caddellì, caddetì “qui intorno”, “lì intorno”, “costì intorno” [VAS] (171), in addunca, addunga, dunga [CNP], dunca e dónca [CLA, F], addunca [VAS], nel pron. indef. checcòsa [CLA] e nel sost. costióni “questioni” [CNP] (172).
Per quanto concerne le finali di parole, notiamo la persistenza della dentale da QUID, QUOD in ch’adè, ricorrente nella varietà arcaica ovunque. Più circoscritta spazialmente appare la caduta della finale -ne, menzionata sopra. Tale troncamento colpisce anche sillabe finali formate con altre consonanti, per es. treppié [CARB] e mò “modo”: a ttisto mò [BS, CCA], spesso poi provvisto di paragoge in móne [CLA, MS, SU] o mòne [BS]; l’avv. mó “ora” e il frequente ancó [VAS]. Seguendo in ciò altri dialetti toscani e centro-meridionali, la nostra subarea mostra preferenza per l’abbreviazione di forme verbali: li ètti “gli detti” [CNP], éttala via! “gettala via!” [CLA], a bberà “ad abbeverare” [VAL]; l’allarga anzi ai sost. istrèllo “sentiero” [VI], vésco [S], bbrinzo “brindisi” [MF]. A Bagnoregio ha assunto carattere vistoso la caduta della dentale nella prep. di in certi sintagmi (173), ma si tratta di tratto ricorrente in altre subaree, tra cui la cimina e il Blerano (dove la vincéll’il drago “la brocca del drago” è il nome di una località di Blera). A Canepina, infatti, sono di uso corrente i sintagmi seguenti: a curz’ell’àsini, źeźźich’e vino “goccio di vino”, uno spicchjo e ajjo, na còst’e sèlloro “una foglia di sedano”, um mach’e mélla “una mela”, da paragonare a quelli di centri vicini: mèźźa libbra e cìccia, quarche ccòtta e faciòli (rif. alla quantità di fagioli che si cuociono in una sola volta), quattr’òva e maccaró [R]; damme m bèzz’e pà, il top. piazz’e massa “Piazza di Massa” [CC], na fòjja i cicò “cicoria” [CCA]. In quest’ultima località, dal sintagma pizz’e lé “pezzo di legno”, si è creato il composto pizzelenata “bastonata”, presente anche a Canepina. Sempre a Capranica, lo stesso meccanismo sintetico ha dato luogo al sost. carcoillàsino, da noi udito nell’espressione ha sonato u carcoillàsino, che equivale a dire: il suono della campana avverte che la giornata di lavoro è terminata e bisogna caricare l’asino per il ritorno a casa. Il fenomeno della cancellazione della dentale risulta sistematico a Sant’Oreste: a fiésta i pasqua, quache pèzzu i cacchjatèlla “qualche pezzo di ciambella”, a precissióne i cristo mòrtu, um pilùcciu “un pentolino” i vinu callu, u mése i dicèmbre, i munèlli i mó “i ragazzi d’oggi”.
Tra i fenomeni fonetici di tipo generale, un posto di rilievo merita quello ben vitale della metatesi, specie della vibrante (crapa, craparòla, crastato). Si verifica in un gran numero di parole, tra le quali ropì “aprire” [CLA, CNP, F, S], ternità [S, VAS], prèta [BS, CCA, CLA], pretànghela “stiaccia” [BS], frève [F], crapóna “capruggine”, grugnale “corniolo” [CNP], àrbili [C]. Oltre drénto, diffuso ovunque, citeremo: fraffalle [C], gragalòzzo “gargarozzo”, cratasta [S], catastra “catasta”, crapìccio, crapònica “capruggine”, cropisse, frève “febbre”, grastite “gastrite”, grillanna “ghirlanda”, gròjja “gloria”, mentrasto “mentastro”, pàtrica “pratica”, potrèggia “proteggere”, potrènna “pretendere”, treato “teatro” [F], struppio [CLA, S], scroppióne “scorpione” [BOM], crompà “comprare” [BS], mbruttì “abortire” [CLA, F], frabbo, bbròscia / bbruscitta, crastà, frèbbe, stréppo, ncratastà “accatastare”, tròcchjo “torchio”, trópido “torbido”, stròppio “storpio”, streppina “stirpe”, trottina “catechismo” [VAS]; stranuto [OR]; scrobbùtico, frèbbe [OT], stròppio [BS, CC], reźźillo “arzillo, tafano” [FAL] (174). Più rara invece risulta la metatesi in direzione inversa, cioè con spostamento della vibrante alla fine della prima sillaba, del tipo corvatta, corbatta [CCA, CT, F, OR, VSG, VT], corvàttola [VI], erlìqua “reliquia”, perzémolo “prezzemolo” [F], urzino “ronzino” [S], ornara “gronda”, sbirlendato “sbrindellato” [VAS]. Rientrano qui alcune forme per “propaggine”: porbàjjana [CLA], purbagna [F], ed i sost. corvèllo [G, OT], varciòlo “bracciolo” [CHIA], ferzóra [CNP, R] e perzóra [R], perzóra o perzójja “catino di terracotta” [S], forma diffusa dalle Alpi alle Puglie, da FRIXORIA (175).
La metatesi reciproca di due cons. si dimostra vitale nell’uso quotidiano non solo nell’intera subarea e dintorni (prunga [CO], èrana “edera” [CNP], ciuvèrdola “lucertola” [CARB], fédigo [S, VAS], fético [BT, R], regulìzzio “liquerizia” [CC], requilizzia [OT], rigolìzzia [OR, VAS], àrbolo “albero”, ardale “altare”, ùrgiala “ulcera” di Vasanello), ma anche nel resto della provincia (176).
Il lat. QUERCEA, alla base di ‘quercia’ dello standard, ha prodotto cèrqua, usato ovunque; analogamente, tanìcchja “piccolo saliscendi di legno per la chiusura di battenti rustici; nottolino” [BL, VAS], anche del pitiglianese, deriva da ‘naticchia’. Alla stessa stregua si è prodotta la forma norchìcchja (da ‘cornicchia’) “piccole corna”, di Nepi, pecìcchja (da ‘cepicchia’) “cispa” [CSE], pecìccia “id.”, sirullo “siluro” [F] (177). Metatesi di vocale si riscontra in bbiastimà [CHIA, VAS] e schjuffa “cuffia” [BS]; forse anche in sèrio “siero” [CHIA, F] 178).
Altro diffusissimo fenomeno è la dissimilazione di due cons., specie nel caso si tratti di due vibranti successive: antro “altro” [CLA], niculìzzia “liquerizia” [S], àrbolo [VAS], lènneri “lendini”, gargalòzzo [OT] (179).. Significativa al riguardo la proliferazione di creazioni espressive adottate per designare la parietaria: panatara e pannatara [F, T, VSG, VT], pennatale [CCA], panataa [CNP], penetara, panetara [CHIA], palladana [CC, CO], nepatara, palladara [COR], pallatana [BS], pennatajja [S, SA], pennadara [VI], patalana [VAS], narapatara [MF], nipotara [CT], annapatara [BO] (180). Altra forma dissimilata, per ipercorrettismo, è il canepinese minorènde menzionato sopra. In altri casi la cons. dilegua, come avviene in arato.
Due laterali si dissimilano in rapillo da LAPILLUS “tipo di terra” [BO, BS, F, SA, T]; due nasali in velégna [R, S, VAS] (181); lo stesso avviene nel caso di altre sequenze. Per n- m-, abbiamo culumìa “economia”, soràmbolo “sonnambulo” [CCA]; per t- t-, patane “patate” [CNP, VAS], padane [VAL], il dim. patanèlla [F]; l- l-, nòtala “allodola” [F, VAS], nùpolo “luppolo” [F]; p- p-, porbàccio “polpaccio” [OT]; f- f-, pindifèrro “filo di ferro” [OT]; r- l-, paràdisi “paralisi” [OT]; r- r-, anistrèllo “rastrello” [CNP, VI], màrtala “martora” [VAS] (182). In nòla “allodola” di Chia ha avuto luogo una contrazione seguita da dissimilazione; le formazioni éndera “edera” (attraverso ènera), e pìndela “pillola” di Bagnaia (da accostare a pìrola [F, S], pìrala [SOR, VAS], pìndala [MF], pìndola / pìnnola [CT] e pìllera [T]), si spiegano alla stessa stregua. Il processo inverso, ovvero l’assimilazione di consonanti, può illustrarsi con fagógno “favonio” [BO], ggiòjjo “loglio” [BL], cérgio “gelso” [BAGN], nénneli “lendini” [B], nénnolo “lendine” [CT], nènnolo [BO], dòdala “allodola” [MF, SA]; il fenomeno si verifica spesso in frasi negative: nu gne la fò “non ce la faccio” [P]. Rientrerebbe in questa categoria il civitonico apepàcio “fuco”, secondo alcuni derivante da màcio (MASCULU), se non si trattasse, piuttosto, di un derivato dall’agg. merid. pàcciu “pazzo” (come conferma l’espressione: quando si ppàcio!, “quanto sei pazzo!”) nel significato di “sterile”, più spesso appplicato a piante (cfr. vita pazza).
L’epentesi di vibrante, che sta alla base di tròno, dròno “tuono” (dall’ant. tronare, variante di tonare; cfr. trònito di Orte) o di àstrico “elastico”, bbórzo “bosso” [BS], bbistórno “bistondo” [OT], modifica anche forme verbali come cercastre “cercassi” [MF], mentre quella di nasale dà luogo a sost. come lanzagna “lasagna” [F] (183).
Pare ormai tendente al disuso, o almeno non più applicata sistematicamente come un tempo, l’aggiunta della voc. paragogica, anche se accade di udire in certi ambienti sociali forme del tipo fìatte “Fiat”, archèmuse “alchermes”, bbòcchise, bbarre, gònge, ròsbiffe, firme, chinge-cònge “King Kong” [CC], i neologismi cècche pòinde “check-point” [VI] e tìcchete “ticket sanitario, imposta sulla ricetta medica” [BL] (184). Più di frequente l’abbiamo notata in monosillabi: a mmie “a me” [CLA], móe “ora” [CHIA] (185). Da parte sua, la -ne paragogica viene spesso ancora aggiunta agli inf.: dine, riccontane, t’ajjo d’ajjutane? [S]; a sost. tronchi: cittane, comiditane [CNP]; a pron. interr.: chène [C, CLA, CNP], chine [C, CHIA, CLA, F]; pron. pers.: tune “tu” [CNP], mine “me” [CLA, MF], fàccio da mmine [S]; avv. di luogo: mecquine [CDM], tistine “costì” [F], vèni sune “vieni su” [CNP], mecquine [CDM], tistine “costì” [F], vèni ccane! “vieni qui!” [CHIA], ggiune [SU], viè jjóne, viètt’a mmétta mecchine! [BS]; dedicchine “di qui”, accassune “quassù”, dedaccane “di qua” [S], jjóne “giù” [OT]; avv. di tempo: adène “adesso” [OT], da quantane “da tanto tempo” [S]; avv. di modo: m pòne “un po’” [C], piune “più” [GC, MF], ncóne “ancora” [CLA]; forme verbali monosillabiche: chi ssine? “chi sei?”, annà ffòne “andare in campagna”, vèni sune! “vieni su! “, e n ge sòne? “non ci sono forse?”, fòne nun ge vòne “in campagna non ci vado!” [CNP], che cc’ène? [CHIA], io no lo sòne “non lo so” [MF]; interiezioni: àne! “ah!” [CCA], ène “eh, ho capito, va bene”, òne “id.”; la cong. perchène [SOR]. Tuttavia, le forme che si odono tuttora ovunque con maggior frequenza sono gli avv. olofrastici: sine, séne [VAL] e nòne, specie se pronunciati con tono enfatico (186).
L’inserzione di una vocale all’interno di una sequenza consonantica (anaptissi) ha dato luogo ad un notevole numero di forme. L’esemplificazione che segue fornirà un’idea delle proporzioni del fenomeno: vòriga / vòrica “fossa per la macerazione della canapa o per l’irrigazione” [CNP, S], bbiricòcola “albicocca” [CO, GC, VSG], libbaruni “libroni” [S], vedaréte, ampigarìsciono “impigriscono”, ómmera [CARB], ómmara [CCA, CNP, F, FAL, SOR], àgoro “acre, aspro”, cancarèna “cancrena”, colofòrmio “cloroformio”, fatalina “natftalina”, gargarìsimo “gargarismo”, làbboro “labbro”, lìbbara “libbra”, lìbboro “libro”, màgoro “magro”, pàsimo “afflizione”, pìgoro “pigro”, rumatìsimo “reumatismo”, sepòrgoro “altare di reposizione”, tìgara “tigre”, vìsporo “vispo” [F], sarapóllo “serpillo” [CC, F, VI, VT], sarapullo “id.”, sciaravellasse “scervellarsi” [CCA], taràtufolo “tartufo” [CC, F], garavina [S], caravina “gravina” [BS, CC, OR, VAS], tirafòjjo “trifoglio”, saraménto “sarmento” [VAS], l’arc. catabbràsima “cataplasma” [CC], cericco “cricco, grillo”, cirivèlla “cervello”, sepórgheri “sepolcri, altari di reposizione” [OT], sciaravellato “scervellato” [CCA], càncoro presente con molte varianti in più centri, spalanghétta “asse dello schienale della sedia” [T, VT]. L’epentesi di cons., spesso la v, può illustrarsi invece con i pron. nóvi “noi” [CHIA, F, VI] e vóvi “voi” [CLA, F], il poss. sòve “sue” [C], con il numerale dóvi “due” [CLA], ma anche con i sost.: scorale “squalo” [CHIA], idèga “idea” [CCA], auditónno “autunno” [BS] e il verbo provebbì “proibire” [F] (187).
In lapa e lamo, ovunque nel registro rustico, si ha concrezione dell’articolo, come pure in lovatta “ovatta” [BL], lónto “lardo” [O], lènice “endice” [F, R], lagnìe “gengive” [CLA], lignòstro “inchiostro” [F], orillo “ghiro” [VI], lardènti “frascame secco per accendere il fuoco”, laguźźì [CCA], nèpre “lepre” [VAL], lòttola (da nottola) “pipistrello” [CO], nàsala “asola” [CNP]. Per “nido” ricorre onnìo [BOM, CHIA, S], unnìo [S], onnido [CLA, CO], accanto a onnïada “nidiata” [VAL]; per “nodo”, onnòdo [BS, C, OT, VET]; per “vipera”, in seguito al dileguo della fricativa, lipra [BS, CARB, VAL, VAS] e lipre [BS, CARB] (188). Il fenomeno inverso (la discrezione dell’art.) può esser illustrato da: àbbise [CNP, OT], emòsina “elemosina”, opino, tanìe “litanie”, uffi [CNP], ópo [CNP, S, VAS], récchja [CNP, F], liva “olive” [CNP], onnaspo “raspo d’uva”, onnésco “boccino”, óto “loto, fango”, uncènzo “cipresso”, ciarda “lucertola” [CLA] e ucèrdole [CHIA], ènali “lendini” [BOM], ométto “lombetto”, ocìforo / ocìfero / ucìfere “Lucifero, diavolo” [VAS], èpore, ombrico, ópo penao “lupo mannaro” [OT], àstrico [BS] (189).
Un fenomeno vistoso e caratterizzante da prendere in considerazione è anche quello del rafforzamento sintattico, ovvero l’allungamento in certe condizioni delle consonanti iniziali di parola (190). Come a Roma e nel resto dell’Italia centrale, l’uso segue, a livello provinciale, grosso modo quello toscano, tranne alcuni casi. Le cong. cóme o quante in frasi comparative provocano il fenomeno (cóme llòro, quante vvue), così pure nel caso cóme compaia in frase interrogativa (cóme mmae?), e lo stesso avviene con si (si pparto, si ttant’è nu ll’ha ddétto); inversamente, non ha luogo dopo l’art. det. ed i pronomi lo, la, le, li, l’avverbio dóve e la prepos. da. Tuttavia, nella nostra provincia la situazione risulta in realtà più articolata e meriterebbe di essere sottoposta ad un’analisi puntuale, da effettuarsi località per località, per poter riuscire a circoscrivere zone o meno omogenee di diffusione del fenomeno (191).
Ci limitiamo in questa sede a fornire alcuni esempi dell’uso all’interno della subarea di cui ci occupiamo in particolare. Cominciando da Canepina, ricordiamo che il rafforzamento risulta provocato, tra l’altro, dalla forma verbale si “tu sei” (che ssi ssórdo?; si ssecura?; si pprónto?; si ttù?), dal plur. sò (sò vvòcchi azzeccati, sò ddièci ddì), dal futuro sarà (sarà ddifìcile), dall’inf. tronco (e vvino pe ddì mméssa, n’ajjo potuto fa dde méno), la prep. (d)e (a ffòrz’e gguai), il pron. indef. che (che gguao “qualche guaio”), l’avv. di negazione (nu ll’ajjo visto mmai), da perché (perché ssi aretrato).
Sorprende però che, a differenza di altre località della provincia, non venga applicato in altri casi come i seguenti: te l’ha isto?, ve l’ajjo isto, ha pisciato tocchì (3 sing.), che razza de mbecilli!, ha ta èsse qué; fa piano! “fai piano!”, mó te vòjjo a llèggia!, n da rètta!, tu pà ha fatto sta còsa, te fa deriggerì, mica c’è da respónnime male, jjè pròprio a cquésto mò, nun ha portati chjuélli, ma che ne sàccio io!, a vita che ffacémo nói fa ria, che c’hai da fà?, pe nun falla caé, un g’è remasto mango l’appicciafòco.
Da una verifica effettuata a Vignanello, situata ad alcuni chilometri da Canepina, risulta la situazione seguente di mancata applicazione della geminazione: fa fòrza, fa cardo, va via bbène, fra du tère, a luna calènte, a frìgido, e veniva na capanna, e se tiràveno a mmano, e pòe se levava, ha préso (3 sing.), o puraménte cambiallo, pò vène gròssa, sènza batte, mó se velégne, è fatta, che va ggiù lo butti via, pe sciacquà bócca, che rótti che fa!, ha rimediato (3 sing.), che razza de tèmpo!, t’ha còtto l zóle, ha dato vòrda (rif. alla luna). Analogamente nel centro limitrofo di Vallerano: sò ppèjjo de li sèrpi, da mmé, a vvignanèllo cc’è, se ajjo da dì che addra còsa, fa piano!, ha loffato (3 sing.), cantà da poèta
Nell’altra località oggetto particolare del nostro studio, Soriano nel Cimino, troviamo questa tipologia: m’ammattétte cu ccajjo, pe ddavéro, sti ddu faciòli, nu mme prème, ce sa bbòno, na massa e ggènte, na vóce jji ddiciva, l’impersonale se ddurmiva “si dormiva”, si cche vvòle “cosa vuole”, se cchiduno ava che ppò de ràbbia, ve ddico, nun ce si ppiù “non ci sei”; le espressioni enfatiche: nu scigniva mmai, sa si qquanto saranno cuntènti!, e ssi qquanta pacènza, fijji mmii! Nella frazione di Chia: fra le du tèrre, passàvon’a ricòjja le fascine, su ppe tistì, tèmpe dde prima, de che cclasse sì?, jjó ppecóne, che cc’ène?; vèni te ccane!
Allargando la visuale sugli altri centri della stessa subarea, rileviamo a Caprarola: che ddì e ll’antro; lo capìsciono l’antri?, che ppòche frasche, quanno ch’ha préso bbè, ventarèllo che dà piacére, ha carmato, fa callo, te bullisce, sa fa tutte l’arte (3 sing.); a Carbognano: ha fioccato, ha cecerato, ha fatto a pòsa, l’ha lavate e fòjje, ca barèlla, cóme dio ce l’ha dato, cóme quéllo nòstro, sa de raspo, te fa leccà labbra, lo rrègge, pe rafreddóre; a Fabrica di Roma: m’è remaso su lo stòmmico, chi o sà cóme farò?, quéllo ch’ha da fà, si vvai di mèdichi te spèllino, li fa mèjjo, sta sèmpre a ccurra, stàvin’a ppòsto co lètto, te si fferito, hò patito parécchjo fréddo, n’ha fatto pòche de bbattajje! (3 sing.), te l’avo ditto, borbòtte si nu la stappi, che pparòla “qualche parola”, e cche si m bùfelo!, t’ha dato ll’aggòbbio?, l’ha “gli” mannato via tutta quanta a roscallazzió, hò fenito, c’ha portato na sinalata d’amàndele, ll’ha dati na spénta e l’ha fatta cadé, portà o fijjjo a ccavallicénci; ca bbarròzza.
Bassano in Teverina: ce sta tanda, da la ròtta “nella”, cóme cchist’anno, da mmé, è ddi ppaése. Bomarzo: fa danno. Vitorchiano: sasso che tréneca.
Nel Falisco si riscontrano altre tendenze, come per es. a Civita Castellana: a fiór di tèrra, ha rigorgato tutta la pianda, ha fatt’a fargétta, gala e rifà o quarto, se cchjude “si chiude”, che ppàccala do cèlo; a Vasanello: i ppatre mèo, dov’è che sse fràcia, va piovènno, quann’è guazzósa, quéll’ardri ddói, n ze pò deriggerì; a Corchiano: lì a ppali, n ce sarranno mmai, nom pò durà così, che vvòrda, edè trapassata, è gattia, ha patito l’asciutta, nu jj’ha piovuto, è rimasto ndiètro, fa callo, m’ha fatto male, pane bruscato; ad Orte: lo butti i vvino, me fa male la capòccia, va tretticanno, va cascanno, n lavóri mmai!, sta su ccasa, ha fioccato.
Si verificano però applicazioni parziali. A Corchiano: nom pò durà così; ma n ce sarranno mmai; Carbognano: se fa male; fa cardo; Faleria: a polélli “pulirli”; cóm’e cchjamave prima “come le chiamavi”; Nepi: è véro?; mó cce carga “ci carica”.
Situazioni molto divergenti e intricate paiono emergere nelle altre subaree della provincia (192).
Il sistema morfologico, di cui passiamo ora ad occuparci, comprende elementi indispensabili a costruire ogni atto locutorio. Essendo meno esposto degli altri alla trasformazione, più stabile e radicato nell’uso, può fornire dati utili per descrivere una varietà linguistica. Nella nostra area d’indagine, anche questo livello dà un’ impressione di complessità non riducibile a uno schema unitario, valido per ciascuna subarea. Cercheremo tuttavia di evidenziare i tratti più caratteristici.
Ricordiamo anzitutto la conservazione del nominativo latino nei nomi di parentela (nella provincia ricorre ovunque mójje, sporadicamente mate [BS, CCA, CLA], pate [BS, CLA, S], frate [CNP, MF], usati spesso in funzione vocativa) e in latro; quella dell’accusativo risulta da: sartóre, oltre dai citati òmmino [CNP], òmmono [CLA], sòra “sorella” [BL, MF].
Tra i passaggi verificatisi dalla prima alla seconda declinazione lat. meritano menzione: agàcio [CNP], serrécchjo “falce messoria” [CC], fantàsimo “fantasma” [OT, VT] e pantàsimu [SOR], vajjo “vaglia” [F], acàcio [BS], tramo “mignola” (altrove: trama) [OT], acàcio, régno “covone” [BS]; dalla prima alla terza: polènte, cànipe, vèrte, vìpere [CNP], a mice “il gatto” [VI, VAS], valice “valigia”, punènte “polenta” [F], pulènte [VI], grótte [S, T], mórre “scarpata, balza” [S], acace “acacia” [CLA], l’epentetico vèspre “vespa” [CO], illèspe “vespa”, strae “strada” [VAS], cóe [VAL]. Più consistenti appaiono i passaggi inversi. Oltre ad alcuni sost. più noti ovunque (frónna, panza, vèsta e vita “vite” Vitis vinifera), compaiono numerosi altri casi: sièda, cóta, vèsta, seménta, grànena, lènta “lente” [F], siépa “siepe” [CARB], scialla [CC, CNP], tóssa [CNP, F, VAS], jjanna, lapa “ape”, digama “tegame” [CNP], tigama [S], ìrcia “elce” [CLA], àspita “aspide”, àciara “acero” [CO], sèrpa [CARB], górpa “volpe” [CCA], fàrgia “falce” [CC, T], bbura “bure” [OT], guèrro “maiale da riproduzione” [CC, OT, T, VSG], stìpito “stipite” [BS], lènelo “lendine” [F]. I sost. fanga [CC, VAS] e cirivèlla “cervello” [OT] costituiscono invece esempi del passaggio dalla seconda alla prima declinazione.
Come appare dall’esemplificazione seguente, sono pochi i passaggi dalla seconda alla terza, del tipo fume (in molti centri): càrpine [R], róe “rovo” [VAS], róve “id.”, profume “profumo”, lécce “leccio”, grile “ghiro” [F], asse “asso” [BL, OR]; numerosi invece quelli inversi: stìpido “stipite” [CNP], architravo, confino [CLA], bbòvo, vélo “fiele” [CNP], cécio [CNP, OT], cìcio “cece”, focolaro, réno “rene”, stràggio / stràggia “strage”, travo [F], nócio [OR], vèrmo [VAL], fèlo, sórcio [R], sàrgio, sórgio “topo” [CC], rùmicio “romice” [F], pièo “piede” [VAS], sércio [CC, OR, T, VSG], pàsteno [OT], lìmito “confine di campo” [FAL] (193). Risalgono alla quarta declinazione: la mano, le mano ovunque usati, accanto all’arc. mana di altre subaree, a fico (pl. e fico) [CNP], la pèco [CARB, F, VAS] (da PECUS passato alla quarta decl.).
Si conserva il genere femminile nel sost. dì, sia a Canepina che a Soriano, come anche nelle menzionate fico e pèco. Forma passata al sing. è fìchera “pianta di fico” [BS] o fìcara [SOR], al pari di pècora; dal plur. CAPITA con suffissazione s’è formato capitéllo “tralcio” [P].
Per una tendenza comune all’umbro ed altri dialetti, la finale del plur. maschile in -e copre larga parte della Provincia, ma sembra essere del tutto assente nell’ampia zona cimino-falisca e ortana (194). Il pl. neutro latino della seconda declinazione prosegue in parole del tipo òssa, òva, léna, sacca, vinghja [CNP], vagarèlla [VAL], le sórga “i solchi” [VAS], vaga “acini, chicchi” [CC], rama, léta “le dita” [S]. Spesso si tratta di nomi di frutta: méla [N], mélla [CC, CO, VI], liva [C], ill’olìa, le prujjèlla “le susine” [VAS], nòcchja [CNP, VAL], ggènzala “giuggiole” [F], cirasa [VI], pira [CNP], pèrzica [CNP, CO], pièrzica [CLA], sòrva [CO, N], nèspola [CNP], gnèspola [CO], jjéspala, prïélla “susine” [CLA], prunga, vìsciola [CO], cògna “corniole” [G], pornélla “susine” [CNP], crògnala “corniole”, ggèrza “more del gelso” [CC], vìsciala [CO]; talora, di termini anatomici: cilabbra “labbra”, późźa “polsi” [CNP], pórźa “id.” [CC, F] o di toponimi: le prata [CNP, F, R, passim], le pantana [CLA, FAL ] (195), l’odonimo Via delle prata a Vetralla.
Circa gli zoonimi, si nota la presenza di situazioni anomale. Come gatta spesso vale “gatto” (in genere), pàssera sta per “passero”. Accanto al sorianese cana, troviamo la cane per “la cagna” a Vasanello; accanto a purce compare il masch. pùrcio. In molti centri lèpre [CC, F, GC, P, VAL] è di genere maschile, come lèpe [CARB], lèpore [CHIA], èpre [CNP, S], ugualmente sèrpe; a lapa si oppone semanticamente apo, apopàcio “fuco” [CC]. La tipologia dei nomi di alberi da frutto, da considerare in stretta connessione con quelli dei frutti, è assai complessa. Anche se, accanto al femm. del tipo ficuna, prevale la serie dei maschili in -o (ceraso), non di rado il sost. alterna con il sintagma analitico del tipo pianta de + sost. A Bagnaia, ad esempio, na pianta d’olivo alterna con n ulivo, e così via. Oppure compare in concorrenza la forma suffissata in -ara, o in -aro: rovaro “roveto” [F], nocchjara [A, SM], nociara [A, BR, P, PR], olivaro [CDM], cerasaro [CDM, P], vetricajja “vetriciaia, luogo piantato a salici (vetrici)”, sambucajja “sambucheto” e vincara “vincheto” [CT], sambucara, sarcinara [BO, CT], spinara [BO], rogara [CT, T, TU], ficonara [P], nocchjara “nocciòlo” [GC].
Notevole il sintagma bbèlli pòchi che ha lessicalizzato un valore antifrastico per “molti” a Canepina, dove ricorre anche l’avv. bbèllo pòco “molto”. Altrimenti, ovunque un’espressione come bbèlli vècchi è da intendere “piuttosto anziani” (a Fabrica bbello fòrte ha valore elativo di “fortissimo”; a Soriano, anche usato come soprannome).
Le forme dell’art. det. presentano un quadro complesso nel territorio provinciale. Per esemplificare le differenze che intervengono a distanza di pochi chilometri, soprattutto aldisotto della linea dei Cimini, è sufficiente presentare lo schema dell’articolo determinativo. masch. singolare nei comuni attraversati dalla strada che collega Civita Castellana al capoluogo di provincia: o pà, o cà, o parènde [CC], ccane, ppane, pparènte [CO], i ppane, i ccane, i pparènde [VI], bbane, ggane, bbarènde [VAL], e ggane, e bbane, e bbarènde [CNP], el pane, el cane, el parènte [VT].
Tuttavia, nel quadro generale è possibile delineare delle zone abbastanza omogenee di diffusione tipologica, come risulta evidente dalla cartina n° 2 (196).
L’art. det. lu (comune alle parlate umbre), in alternanza l’aferetica u [CCA], sopravvive soprattuto in frasi proverbiali (197).
Per gli agg. possessivi, oltre forme raccorciate (la tu mà, l mi patre), sono ravvisabili soluzioni di tipo meridionale: fijji mmii [S], i vóti mijji a tté pròpio nun i dò [CC]. Accanto a questi resistono in pochi centri della subarea cimina mèo, mèa, tèa (cfr. mèo, méa a Sant’Oreste) e rientrano in una tipologia che dall’Umbria raggiunge la Campania: a fijja mméa [F], ], i ppatre méo [VAS], o fijjo méo [CARB], madònna mèa! [CCA], e cch’èra téa a vigna, èra méa! [CCA]; con epentesi: facéva le frégne sòve “sue”. A Capranica risulta il paradigma seguente: masch. mio, miu, plur. mii; femm. méa, mèa, méjja; plur. mée; masch. tio, plur. téi, tii; femm. tia, téa; masch. sio, suvo, plur. sii, femm. sia, plur. sie, (arc.) sòve; a Vasanello: tóo, sóo, a Caprarola abbiamo suvo, a Ronciglione tuvo. Attualmente il sintagma art. det. + poss: l tu nònno alterna con quello senza art.: tu fratèllo. La situazione varia però di zona in zona.
Le forme enclitiche del pron. poss. (del tipo mójjima), già dell’ital. antico, appaiono ormai spazialmente circoscritte ed applicate per lo più ai termini di parentela stretta (raramente a cognato, nonno, zio, cugino). A Canepina sono in uso: marìtimo, mójjima, mójjita, fìjjimo, fìjjito, fìjjima, fìjjita, fràtimo, fràtito, sòrima, sòrita, nipótimo, nipótima, quinàtimo / guinàtimo, quinàtito, quinàtima; a Caprarola: fìama, fràtomo, marìtomo, mójjama, nepótama, nònnama, fìata / fìoto, fràtoto, marìtoto, sòrata, zzìata. Nei centri vicini: pàtrimo, pàtrito, màtita, fràtito, zzìito [CCA]; màmmeta, pàtrito, sòrita, cognàtito, fràtito [BS], quinàtito, guinàtito, màmmita, pàrito [F]. Di rado compaiono al plurale: fijjimi, fìjjiti, fràtimi sòrime [CNP]; fìjjiti, fiivi, fràtimi, fràtiti [CLA]. A Civita Castellana, centro industrializzato, il fenomeno può considerarsi scomparso e sopravvive sulla bocca di anziani in espressioni fisse del tipo: a tté e ssòrita!; bbòtte a tté e ccèllo a ssòrita!; a mmàmmita! Sintomaticamente, si tratta di esclamazioni scherzose con sottintesi maliziosi.
Per i pron. personali, segnaliamo la notevole forma relittuale éo udita a Fabrica, cui a Capranica corrisponde ìu; la seconda sing. può presentare l’epitesi: tue [GC]. Risultano generalizzati, anche per le persone, ésso, éssa. A Capranica e Bassano Romano si usa il paradigma issu, issa, issi, isse, anche di altre zone laziali, abruzzesi, campane. me fa mmale isso (da IPSU) [BS]. Minoritarie ormai le forme lèe, lue, luve [VT] nei confronti dello standard (198). Per il plurale prevalgono nóe, nue, ma ricorrono anche nóvi [F, VAL], nui [S, CHIA], nua [B] da accostare alla identica forma di Nemi e di centri umbri. Simmetricamente, abbiamo vóe, vue, e vui [BOM, CCA, S], con l’epentetica nóvi, vóvi [CLA]. Inoltre si usano le toniche nuantre, nojjantre, vojjartre, vojjardri [VAS], valtre, vantre [VAL], vartre [BO] ecc. (199).
Delle forme ton. oggettive, oltre quelle dominanti (nóe, vóe, lue, lèe, ésso, éssa), sono presenti anche quelle derivate dalle dative, come nel Mezzogiorno: con tì [SA], ma mmì [CE], a mie, a tie [GC]. Resistono anche forme soggetto enclitiche del tipo: potévvibo “potevate” [BS], évovo [CLA], dicivvo, ch’aìvvo che mme chjamavvo? “che avevate da chiamarmi? che volevate?” [BL], comuni al Lazio meridionale (200).
Il sistema allocutivo dei pronomi mostra, in più centri conservatori, l’uso esclusivo del tu all’interno della comunità. A Canepina, viene usato tuttora all’interno del paese in ogni strato sociale e sfruttato come tratto blasonico da estranei. Anche rivolgendosi a persone di riguardo si usa il tu, aggiungendo però titoli onorifici: sòr professó che ddici? In più località era normalmente usata la forma di rispetto vóe, rivolgendosi a persona anziana, un tempo perfino tra coniugi.
I pron. interrogativi qualo [CC, CLA, CNP, F, FAL, SOR], quala [BS, BT, CC, CHIA, OT, R] paiono assai diffusi e vitali, mentre quasso, quassa (da una forma rafforzata ‘qualéssa’) sembra restare circoscritto e in regresso [CNP, F, VAS] (201).
Tra le forme dei dimostrativi notiamo: quésso [CC], chésso [F], quélo, quillo [CCA, S], quélo [CC, MF] (202), quistu, stu, tisto, quillo, quillu di Capranica; a Bassano Romano, quisto e la forma scempia quilo accanto ai meridionali chillo e chisto: a qquillo mò “in quel modo”, a qquisto mò “in questo modo”; a Soriano i plur. quissi, quilli, anch’essi di tipo meridionale (203).
La forma listésso [CNP] (per concrezione dell’articolo) presenta corrispondenti toscani, mentre tésto (abbreviata in té) e tisto [BL, CNP, TE] (abbreviata a Canepina in ti: e tti sò e stivali) si ritrovano in Umbria. Da segnalare la serie pronominale tistondì “codesto”, tistandì, tistindì, tistendì di Vasanello.
Come indefiniti sono usati cheduno [BS, CARB, CHIA, CLA, F, S, VI], quarcheduno [CC, OT] (204), chiduno [S, VAL], chighiduno [VAL], cheuno, chedduno, cheppò “un poco” [CNP], carcheduno [R], chedunantro [F], quachitunu [SOR] (205) e la forma abbreviata in funzione aggettivale ché “qualche”: che vvòdda “qualche volta” [CNP], che òmmino [CARB], che ddì e ll’antro [CLA], che ggiórno l’andro [CC]: tutti derivanti dalla perdita dell’elemento velare, come pure checcòsa [CLA, CNP, F] (206).
Per “nessuno”, oltre le forme meridionali niciuno [F, FAL] e gnuno [CT, FAL, N, VSG], troviamo quella notevole di tipo toscano nullo [BOM, CNP, VAL], usata anche in funzione aggettivale (nullo pòsto) (207). Il concetto opposto di “tutto” è espresso a Caprarola e a Piansano con gnibbè (208).
Due tratti fortemente caratterizzanti ci paiono le forme quèlle [CNP, S, VAS], cüèlle [OT] per “nulla” e chjuvélli, chjuélli [CNP], chjèlli [S, VAS] per “nessuno”. Con significati oscillanti tra “in nessun luogo” e “in qualche luogo” si usano le forme seguenti: donèlle [VAL], donequèlle, donevèlle [CNP], donevèlle [S], dunèlle [CHIA, VAS], ndunièlle [CARB], ecc. (209).
Per contaminazione di TAM MAGNUS (da cui tamagno) con TANTUS, nasce il pron. indef. aggettivale tamanto “tanto grande, enorme” di Bomarzo, usato anche come avverbio “molto” (210). Ad Onano abbiamo documentato l’insolito avverbio olofrastico negativo jjó, usato anche come interiezione di richiamo.
Tra le numerose interiezioni ricordiamo almeno: ócce!, gócce! [BS, CLA, F], gócce quanto hae fatto prèsto! [P], góccele!, gómmele!, ómmele! [F], gómmere! [CLA], l’eufemistico diàscole! [S], diàschice!, diàntine!, diàstine! [F], e llai! “suvvia, dai!” [F, S], macaro “magari” [OT], maliè “magari, certamente”, jjàscuci “certamente” [OT] (211), l’ironica bboccachjèdi! rivolta a chi ha ottenuto tutto il possibile [CNP, F] e l’espressione: sa per l’amór de dio! [CNP, F], che rimanda all’Umbria. Tra gli avverbi si notano: accajjù “quaggiù”, accassù “quassù” [S], dedistì “lì”, dedicchì “qui”, dedaccà, chjù “più” [S], orammai, orimmai [F], arimai / orimai “ormai”, casannomai “casomai” [MF, OT], sincaso “semmai” [VT], perdappòsta “apposta” [P], deperdavéro “davvero” [CC], apperbulla “per scherzo” [SOR].
Per finire, accenneremo ad alcuni importanti tratti del sistema verbale, sulla cui formazione ha agito in misura particolare la spinta analogica. Anche se i paradigmi andrebbero analizzati centro per centro, emergono tendenze comuni all’interno delle subaree.
Nell’ind. presente sottolineiamo anzitutto la pronuncia aperta della vocale finale atona a Canepina. Alla I plur., accanto a magnamo, vedémo, partimo, abbiamo sbajjémo [F], ce ricordémo [VI], rïémo “ridiamo” [BT]; per la seconda plur., citiamo l’espressione proverbiale arcaica: attènde, fijji, che ssi ccaschéte ve rruinéte sinènde che ccambéte [CC]. Per la III plur., prevale la forma in -ano, ma si usano pure quelle del tipo pàrlono [VI], pàrteno, sènteno, piàceno. In armonia coi dialetti umbri, si usano le forme stònno, fònno “fanno” [B]; cui si aggiungono svéeno [CCA], dìcheno [CO, CC]. Altrettanto diffusa la terminazione -ino: lavórino [BT], vènghino [CT], màgnino, bbévino, scópino [CT], survéino, sfiàtino [B], màgnino e bbévino [CC]. Vitali e diffuse risultano le forme del tipo lèggio, scégno, rinàscio dovute a palatalizzazione; mentre véggo e véggono [BL], viènco “vengo”, arémànono [C], pàrgono [MF] sono anche di varietà toscane. A Sant’Angelo di Roccalvecce il paradigma di morì suona: io mòrgo, tu mòrghi, esso mòre, noi morémo, voi moréte, essi mòrgono. Per “essere”, notiamo sia “sei” di Capranica e il plur. sònno [F, MF] “sono”, accanto alle più diffuse e salde si “sei” [CCA, CC, CLA, F, VE, passim], sie [BL], simo [BT, CLA, CNP, F, OT] e site [CLA, F]. Del verbo avé “avere” sono d’uso corrente le forme ridotte émo, éte, oltre a quelle in regresso adae, adà, adéte, adanno. Nei Cimini si ode ajjo “ ho”, a Canepina e Fabrica amo e ate, mentre nella Teverina ricorre ònno “hanno” con le forme aferetiche démo “abbiamo da”, déte (anche di Vignanello), sté “stai” [CLA] e sti “id.” [VI] (212).
La coniugazione di andare, con esiti fra IRE e VADERE, presenta nei Cimini una situazione intricata per la presenza di vajjo, gnamo, gnate. Da sottolineare la presenza di varie forme da IRE (oltre il frequente part. pass. ito) ben vitali in vari centri della provincia: jjéa “andava” [BT], jjàtece vói! [CNP], jjarébbe [CCA], jjirà, jjìssimo, jjìrono, jjirìa, jjàteci!, jjì [CNP]; l’imperf. ind.: jjavo, jjavi, jjava, jjàimo / gnàimo, jjàvivo, jjàvono [CNP]; jjéo, jjéi, jjéa, jjémio, jjèvio, jjéono [VAS], jjavo, jjavi, jjava, jjàmmio, jjàvvio, jjàvino [F]; jjavo, jjavi, jjava, jjàvimo, jjabbo, jjàvino [CCA]; il perfetto: jji, jjissi, jjì, jjìssimo, jjìssivo, jjìrono [CNP]; gnédi, jjésti, ì / gnéde, jjémmo, gnésti, jjinno [CCA], ecc. (213).
Di poté, appaiono usuali pòzzo e pòle, talora pòli; per volé, si notino la II sing. vòli “vuoi” [CNP] e plur. volite [N]; per sapé, oltre alla I sing. sàccio di tipo meridionale nei Cimini e a Sant’Oreste, ricorre la serie sape, sapi, sapimo, sapite.
Nella complessa situazione dell’imperfetto appaiono rappresentati i fenomeni della ritrazione dell’accento in portàmomo, magnàmomo, cce ngoscìmomo [R], ìomo “andavamo” [MF] (con a Piansano il paradigma di andare: ivo, ive, ìva, ìvemo, ìvete, ìveno) e della caduta della fricativa in venìa e in ammazzéimo, cocéimo, accennéivo [CNP], la soluzione di tipo romanesco chjacchjeràmio [G] con la fase anteriore chjacchjeràime; portàmete “portavate”, facémete “facevate” [BR]. A Capranica l’imperfetto di “fare” si forma sul tema del perfetto: ficévo, ficévi, ficéva, ficévimo, ficébbo, ficévino.
Il paradigma dell’imperfetto di èsse appare ovunque ormai uniformato, ma resistono le forme: adèro, adèromo, adèrono, cui sono da accostare le falische edèrimio, edèrino. A Civita Castellana il paradigma ha questo aspetto: èro / edèro, èri / edèri, èra / edèra, èrimo / èrimio / èrimmio / edèrimio, èrivio / èrivvio / edèrivo, èrino / edèrino; a Soriano si usa, come in Toscana, èrima “eravamo” (e sentémma), a Canepina èrimo, èroto, èrono; a Fabrica: èrimo, èrivo, èrino; a Caprarola: èromo, èrono (214). Ma a Montefiascone esistono altre forme del registro arcaico con iniziale in fricativa dentale, provenienti dalla cons. radicale di essere con influsso di ‘aveva’. In accordo con l’Amiata, abbiamo quindi nel Vulsiniese un paradigma del tipo: sévo, sévio, ecc.; e con dileguo della cons. intervocalica: séemo, séete, “eravamo, eravate”; a Montefiascone: séomo, èssoto, sémmara, séstara; a Marta: ce s’éstra pure vóve. Per il verbo avere: adìa, adìomo, adìoto; a Canepina: àimo, “avevamo”, àivo “avevate”; a Caprarola, con riduzione del corpo fonico del verbo: évo, évi, éva, évomo, évovo, évono / avévono; cui corrispondono a Fabrica: avo, avi, ava, àmmio / avémmio, àvvio, àvino.
Tuttora in uso appaiono le forme complesse, per lo più della seconda plurale, con pron. enclitico: èribbo o edèribbo “eravate”, saréssibo “sareste”, avébbo “avevate”, avaréssibo “avreste” [CCA]; sarìssivo [F]; saparìssibo “sapreste” [BS], stéssivo, nnàssivo, éssivo, voléssivo [FAL]; magnàssivo “mangiaste”, saréssivo “sareste” [CC] (215).
Dai parlanti stessi ci è stata spesso citata come “tipica” delle vecchie generazioni la coniugazione in -ara / -éra con significato passato (perfetto o imperfetto), in uso nel Vulsiniese e parti della Maremma interna, ma ignote nella subarea cimina (216). Per la I sing. abbiamo annotato a Viterbo: bballò, magnò; a Montefiascone: mi ritirau, me sognau, aprio, m’incontrò, con il plur. mettéstra “metteste”. A Soriano, per la prima plur., sono dell’uso corrente c’émma “ci andavamo”, magnamma, sentémma.
Nel perfetto, appare saldo il paradigma in -étti: cerchétte, diventétte, carichétteno, carchétte [GC] ed -ètti: ètti “diedi”, mettètti “misi”; al plur. ritornèmmo [ROCC] e con inserzione di vibrante potréttero [FAL] (a Vallerano l’esito è in -atte). In vari centri alla prima sing. esce in -ò: annò [GC, VT], in qualche caso in -é: stétte, vidde [CLA]; la terza in -à: levà [C], cambià [S]; toccà, comincià, scappà, chiamà [CLA], cantà [F], parlà [N] (217); saltuario il plur. vincéssivo “vinceste” [C, CC]; la III plur.: caccianno, spartinno, inno, dìssono, jjempinno [CLA]. Oltre le forme in -iédi (andiédi, stiéi [PR], c’annièdi da mì [VET], c’annièda da mì [VET], anniède “andò” ad Acquapendente), troviamo il raro potébbi [OT], pòddero “poterono” [VT]; a Fabrica abbiamo pòtti e pòtte, pòttimo e pòttivo; quelle forti: vòrzi, vòrze [VT], vòlze, crése, mòrze [P], misse [CLA], mòrzero, mìseno [CC], mìsono, présoro [VI], discùrzono [MF], méssoro [VAL], magnònno [BO]; alla I plur. annàssimo [FAL], diciàssomo [C], vedéssomo, dàssomo, facéssomo [MF], cascàssimo [A, T], entràssimo [OT]; e le formazioni isolate io le viste “le vidi”, lo vìstono “videro” [MF]; fice, vinne [GC], sténzono “spensero”, svélzono “svegliarono” [MF], annòrno [BS], magnòrno [VT], parlòrno [CC], comenciònno [MF], vìddono, se spaventònno, cominciònno [P], currinno [B]. Per es., il paradigma usato da una fonte montefiasconese suona: annètte, annaste, annò, annàssomo / annàssimo, annàssoto, annòno; con adeguamento ad avéssi, abbiamo éssoto “aveste” ed éssimo “avemmo”. Il paradigma di “fare” a Capranica suona: fice e fici (I e III sing.), ficémmo, ficébbo, ficinno.
Nel futuro, si verifica la geminazione di vibrante in: dirrò, dirrònno, starrà, sarrà, varrà [B], n ce sarranno [CO], mentre ricorre il dileguo della fricativa aranno, arò, aréte [MF]. Nella nostra subarea è ben attestato il futuro farajjo [CNP, S], porrajjo [CLA], avarajjo [CLA, CNP], morarajjo, porajjo [CLA], sarajjo [VI]. A Capranica troviamo: amararò, amararai, amararà, amamarémo, amararéte, amararanno. Accanto all’uscita in -ajjo è documentata in uso negli anni Trenta quella in -àglio a Canepina (venaràglio), anche se è incerto se si tratti del termine corrente o di un ipercorrettismo.
Ben saldo ed esteso all’intero territorio appare il condizionale in -ìa: avarìa, sarìa, farìa, dirìa [CNP], piaciarìa, vierìa, vorissi [CLA], sarìa [B, VE], me piaciarìa [CLA], lo farìa [C], faréssito [BS], saparéssemo [O], vierìo “verrei”, vorissi “vorresti” [CLA]; a Bassano Romano è per es. in uso il paradigma: vorìa, voristi, vorìa, vorrìssimo, vorrìssito, vorrìeno. Però la forma del condizionale di maggior frequenza è forse quella in -èbbe / -ébbe della I sing.: magnarèbbe / magnarèbba [VT], a fronte di vorrébbi [OT] e del plur. vorrébbono [MF]. Esistono tuttavia anche forme in -ss- (potréssimo, lavoraréssimo, porìssimo) e quella di tipo meridionale (dorémmara “dovremmo” [B]; morgaréssamara “moriremmo”, potaréssara “potremmo”, daréssara “dareste”, pijjaréssara “prendereste”, risparambiaréssara “risparmiereste”, veggaréssara “vedreste” a Montefiascone; saréssamara, annàmmara, aricordastra a Marta; roppémmara a Piansano), nonché paradigmi misti del tipo: trovarìa, trovaristi, trovarìa, trovarémmo, trovarésta, trovarébbano a Ronciglione.
Salde sono anche le forme abbreviate dell’imperativo: tè “tieni” e tené “tenete”, va “guarda” e vardà “guardate”, sè “senti” e senté “sentite”, sapé “sapete” [CE], ecc. Oltre all’imp. di essere: èssi “sii” [CC, F, OR], èsse [VT], èssa [F, VT], lèggia “leggi”, scriva [CNP], ricordiamo le insolite: nàmecene! “andiamocene” [N], dànnini “daglieli”, dìnnini “diglieli” [BS]. L’imp. negativo è reso con la sequenza del tipo n te mòve!, raramente con il cong. imperfetto: nu gnéssi scarzo! [BT], nun dubbitassi! [GRAF], nun caìssi! [S], nu gne dicéssi gnènde a ttu fradèllo! [CC].
Notevole la forma vòli “vuoi” di Canepina e per “sapere”, oltre sàccio, la serie sape, sapi, sapimo, sapite. All’imperfetto, accanto a jjèra, ricorrono anche èrimo, èroto, èrono [CNP], èrima e sentémma a Soriano. All’infinito, appaiono correnti ovunque le forme apocopate anná, venì, sapé, métta, rispónne [CHIA], e per passaggio di coniugazione gòde, séda [VT], séa [BOM], tròva [CHIA].
In un gran numero di località, infine, risultano ancora in uso i part. pass. abbreviati (a suffisso zero) del genere: cómbro, fèrmo, lasso, passo [CNP], cómbro [CC], tròvo “trovato”, antuso / ntuso “ammaccato” [S], sénto “segnato” [VAL], órto “urtato, toccato”, spòddo “spogliato” [VAS], disénto “disegnato”, disécco “disseccato”, cómpro, tròvo, spòrto “spogliato” [F], rivi “arrivati” [N] (218).
A conclusione di questa panoramica, occorre precisare che il quadro sopra delineato non configura né riflette, come è facile intuire, la situazione attuale nella sua complessità, ma quella che emerge sostanzialmente dai materiali raccolti in un trentennio di lavoro sul campo (anni 1960-1990), con inchieste effettuate in tutti i centri della provincia (219). L’impressione che se ne può ricavare è quella di una realtà statica ed omogenea, linguisticamente arcaizzante o conservativa, poco aperta agli influssi esterni. Lo stato effettivo attuale non corrisponde però a quello qui descritto, dato che non abbiamo tenuto conto, in prospettiva sociolinguistica, delle trasformazioni che hanno determinato, come nel resto d’Italia, il graduale processo di adeguamento, tuttora in atto, delle parlate locali sia alla variante linguistica che gode di maggior prestigio all’interno della regione (nel nostro caso, il romanesco), sia al modello nazionale. Come si sa, il fenomeno ha subìto una notevole accelerazione soprattutto nell’ultimo cinquantennio sotto l’intervento di molteplici fattori che hanno modificato profondamente la società italiana, la sua struttura economica, la vita sociale, anche nelle campagne e nelle piccole comunità. L’automazione, la scolarizzazione, la diffusione di mezzi di comunicazione di massa, in primo luogo la televisione (a cui si deve aggiungere quella della radio, del cinema, della stampa e, in tempi più recenti, di computer e internet), la mobilità nel territorio, grazie alla meccanizzazione generalizzata, al miglioramento delle infrastrutture e al decentramento dei servizi, hanno favorito gli scambi e il rapido diffondersi di conoscenze in ogni ambiente, hanno cambiato tecniche di lavoro e comportamenti. I nuovi modi di vita hanno avuto le loro ripercussioni profonde sul piano linguistico, causando adeguamenti nella fisionomia delle varietà locali e portando ad un nuovo equilibrio, all’interno delle singole subaree, tra sistemi linguistici a confronto. Questa complessa dinamica attende di essere affrontata con nuove inchieste dirette di taglio sociolinguistico che prendano in considerazione, individuabile all’interno di ogni località della provincia, una serie di variabili (dovute al sesso, all’età, all’estrazione sociale e al livello d’istruzione) che caratterizzano e differenziano i diversi gruppi di parlanti.


NOTE

1) Occorre avvertire che la segnalazione di una voce o di un fatto linguistico in una determinata località non implica la sua assenza altrove: la scelta è piuttosto imputabile all’immediata disponibilità del dato empirico; in altri casi per ragioni di spazio evitiamo di moltiplicare le attestazioni per lo stesso fenomeno. D’altronde le ricerche sul campo non possono considerarsi mai concluse, né sono state effettuate ovunque con la stessa intensità.

2) Trifone 1997:3.

3) Francesco A. Ugolini, sottolineando la presenza in Umbria del “rafforzamento dativale”, definisce il fenomeno “quella sorta di foderatura costituita dalla dentale sorda dinanzi all’esito del latino AD” (Ugolini 1970:475).

4) Per l’attestazione a Trevignano Romano, vd. Cecchini - Lorenzini 2006:305, s.v. schiessassi; per Viterbo, vd. Urbani 1999:63, s.v.; per Roma, vd. Del Monte 1955:211, ss.vv. schessa “voglia, forte desiderio (si dice di specie di cibarie: m’è venuta la schessa de lo pesce fritto)” e schessasse, schessàssene “struggersi dal desiderio (me schesso – o me ne schesso – de lo pesce fritto - pòrteme quelli regazzi che me ne schesso de vedelli)”. Per la derivazione: Faré 1972:336, n. 6952a, s.v. *quaestiare; DEDI, s.v. chisciare; Beccaria 1985:68.

5) Petroselli 1974:259; registrato anche a Ficulle (cfr. Mattesini - Ugoccioni 1992, s.v.) e in Sabina. Ugualmente fino ad Orte penetra la forma verbale néngue “nevica”, con un’estensione al presente della forma del perfetto, giacché continua il latino NINGUIT; essa, arrivando “quasi ad Urbino, indica nelle Marche un’area di tendenza conservatrice, che rientra tuttavia in una più ampia, ricoprente anche l’Umbria settentrionale e tutto l’Abruzzo adriatico” (Franceschi 1979:1900).

6) Mancini 1960, s.v.

7) Sgrilli 2003, gloss. Forme non meno significative si desumono dalle fonti orvietane, anche quelle di carattere più strettamente letterario. Per es., un sommario spoglio dell’opera di Simone Prodenzani (De Benedetti 1913) ci documenta tra l’altro: unto “grasso (sost.)” (p. 22, v. 14), cellaio “cantina” (p. 25, v. 8), ommiccione “ombelico” (p. 29, v. 48), borscia “borsa, borsello” (p. 59, v. 52), s’aggriccia “rabbrividisce per il freddo” (p. 68, v. 87), corgnial “corniolo” (p. 71, v. 59), raponçal, caccialepor, pimpinella, / mentuccia, crispigniuol con oli alisi (p. 116, son. 46, vv. 3-4), raspo “tricofitosi”, rogna (p. 122, son. 57, vv. 10-11), gavolle “caviglie” (p. 129, son. 69, v. 14), sciampiare “ampliare, allargare” (p. 129, son. 70, v. 2), spicciatoio “pettine con denti fitti” (p. 134, son. 79, v. 6), orcha “spalla” (p. 135, son. 81, v. 10), calcino “latterino” (p. 197, son. 12, v. 9).

8) Mattesini 1985. Per la fascia al confine con l’Umbria e la Toscana una fonte utile è costituita da Le croniche di Acquapendente di Pietro Paolo Biondi (1525-1604?) (gloss.): bigonzaro “costruttore di bigonce”, catarcio “catenaccio”, cerqua “quercia” janna “ghianda” merangola “arancia”, pienara “piena del fiume”, prata “prati”, scuffia “cuffia”, spinosa “istrice”, tevertino “travertino”, vaca “chicchi”, vascellaro “vasaio”.
9) Fanti 1988 (nonostante i ricorrenti errori di trascrizione dall’originale). Il numero romano rimanda al libro dello statuto, la prima cifra araba alla rubrica, la seconda dopo il punto alla pagina del volume.

10) Statuti della città di Orte, 1981. Per l’indicazione numerica, vd. nota precedente.

11) Metalli (ediz. anast. 1974); Trinchieri 1994:327-395. Mario Alinei, nella premessa alla raccolta del Trinchieri (“In margine al Vocabolario della pastorizia nella Campagna romana”, 323-325), illustra le circostanze del reperimento e della pubblicazione del lavoro, sottolineando con enfasi l’importanza dei linguaggi settoriali e dello studio delle terminologie di mestieri tradizionali trascurato dalla dialettologia italiana, auspicando lo svolgimento di ricerche a tappeto sui linguaggi tecnici.

12) Anselmi 1979.

13) Sulle indagini per l’Atlante linguistico dei laghi italiani [= ALLI] relative al Lago di Vico, vd. Silvestrini 1984:589-604; per quelle relative al Lago di Bolsena, vd. Casaccia 1986 e Quattranni 1988.

14) Petroselli 1974, 1983.

15) Cimarra - Petroselli 2001, comm. al proverbio 5007.

16) Arieti 2005:60.

17) Per marafèo, comune anche al ternano, vd. GDLI, IX:761, s.v.; per marèntega GDLI IX:763, s.v.; DEDI, s.v. maràntega; per margòlla GDLI, IX:803, s.v. Tutti composti per i quali ci si potrà rifare alla base lat. MALUS oppure a quella germanica MARA (cfr. inglese nightmare, francese cauchemar (<> dĭitus > dĭtus > déto.

40) Cfr. léngua, faméjja, stréjja “striglia”, méjje “miglia”, cegnale [MF]; ténca, tégna, vénca “pervinca”, vejjaro “vaglio”, vénco “vinchio”, gramégna [BO]; céjjo “ciglio, bordo” [GC].

41) Cfr. irce [BS], ìrci “elce” [BL], spinto “spento” [M], bbìttala “bettola” [B].

42) Per il numerale “venti” troviamo vinte [VE, VET], vinti [BOM, CCA, CARB, CLA, CT, P], vindi [BT, OT]. In realtà non può essere ascritto a metafonesi l’esito di vinti, in quanto da base latina -Ī- (Vignuzzi 1975:143; GSDI 49); come fa osservare il Bianconi lo dimostra il fatto che “nel medioevo a Siena e Pisa, dove non si è mai avuto il minimo influsso di Ī finale sulla vocale tonica, si diceva appunto vinti e non venti” (Bianconi 1962:87). Cfr. ditto [CT, P].

43) A Marta i pescatori dicono riémo “remo” [M]; altre forme: viétro “vetro” [B, IC, MF] e tiéngo “tengo” [MF], cannariélle “cannucce palustri” (Phragmites australis) [GC].

44) Secondo Rohlfs (GSDI 104), di base gotica.

45) Da GLEBA (GSDI 54). La stessa chiusura avviene in agnéllo, agnélle di Piansano.

46) Ci limitiamo a segnalare la presenza a Proceno, al confine con la Toscana, di una forma come dónna.

47) Nel capoluogo provinciale troviamo spóso, póco, cóse, rócca, tutte forme però del registro rustico, alternanti con la pronuncia aperta, più frequente, del registro civile recente; a queste si contrappongono i sost. vergògna, nòme, nascòsto, colònna, nòra (accanto al raro nòro “nuora” di Vitorchiano), l’agg. vòto e i pron. lòro, questòro, quelòro.

48) Dove troviamo per es. ónco “adunco”, ónto “lardo”, dónqua, sdimógna “dimoiare”, ossógna “sugna”, fóngo, mógne “mungere”, pónta, come anche bbóco e tófo. In particolare: lónto “lardo” [O]; ggiónco [A, CLA, MF, N, P, TU]; oncino, oncinara [CLA]; dónca [A, B, passim]; dónque [BO]; lóngo [MF, V]; ónto [BS]; ógna “ungere”, oncino, óno “uno” [MF] e dovunque il sost. ógna “unghia”.

49) Né mancano riscontri in altri comuni, sia nella fascia settentrionale del territorio, con furni e curze [B], curza [O], sia nella Maremma interna (curze e bbulle “bolle” 3 sing. a Piansano), sia a quattro chilometri dal capoluogo, a Bagnaia, con curze. Ma per curre è possibile che la u sia dovuta “all’influsso delle forme arizotoniche: currire è attestato in antico senese, cortonese, orvietano” (Bianconi 1962:87). Qui andranno anche zzampugna e tùrbolo / tùrbalo “torbido” [MF]. E’ probabile che Alberto Moravia (Racconti romani di Moravia, Milano 1967, Bompiani) alludesse a simili forme di chiusura, ancora in uso nel Lazio settentrionale: “Lei doveva essere del Nord; lui parlava con gli u stretti, come parlano a Viterbo” (Il pensatore, p. 75); “parlava con le vocali in u, come parlano i burini di quelle parti” (La vita in campagna, p. 342).

50) Cfr. furo “furono” a Monteromano e Tuscania

51) A settentrione: siènte, lèe [O], lièe [O, MF] (cfr. ant. toscano liei), quilièi [B].

52) Per contrasto, si nota a Sipicciano la pronuncia con é chiusa di péte.

53) Ricordiamo le forme dittongate vièngo e viènghe [CLA, MF, P], vièngono / vièngheno, tièngono [P], vièngo, vièngheto “tu vieni” [IC]. A Vitorchiano sopravvive la forma arcaica tièmpi.

54) A Sant’Oreste risultano: ciriviéllu, liéttu, cappiéllu, piézzu, guarniéllu, fiésculu, martiéllu, vitiéllu, cuccumiéllu, dispiéttu, pisciariéllu, cupiéllu “alveare”, induvinariéllu, siérta, stennariéllu, schizzariéllu “cavalletta” (Elwert 1958:121-158).

55) Altrove abbiamo notato: jjésso “esso” [VET], jjentrà [BR], jjérto [GC, VAS, VT], jjentrà (arc.) “entrare” [VT], jjènnera “edera” [CT]. In luogo della palatale, troviamo la labiodentale a Bagnoregio (viscì “uscire”) e a Onano (vièsce “esce”); cfr. viènna “iena” a Montefiascone.

56) Papanti 1875:406-407. Nella raccolta sono incluse le versioni per le sgg. località della nostra provincia: Acquapendente, Grotte di Castro, San Lorenzo Nuovo, Ronciglione, Viterbo (con comm. linguistico del traduttore). Autore della traduzione in dialetto viterbese è G. Coppola, il quale afferma che “in Viterbo un dialetto propriamente non esiste, ma una semplice modificazione ortoepica e fonetica”, opinione tuttora diffusa in certi ambienti. E aggiunge: “In fatto la vocale o è pronunciata sempre mista ad u precedente: viene sostituita la vocale e alla i e viceversa, e talora la e prende il suono di e doppia (ee), sempre chiusa o stretta che vogliam dire”. Il Rohlfs ascrive l’uso improprio del dittongo uó all’influsso del toscano letterario.

57) Raffaele Giacomelli (1934:21) annotava la vitalità o sopravvivenza del fenomeno, citando per Viterbo duòrme e ruòsa, accanto a forme orvietane (duònna, ruòsa) e santorestesi (puòrta, muòrti).

59) Per esempi di uso blasonico di shibboleth, vd. gli scambi di battute: Dì ‘n pò’ nnèspole! – Nìspole! – Me sà ch’è dde Vetralla (Petroselli 1978, num. 189); [Il canepinese] Pròva ‘n pò’ a ddilli cuccù! Cuccù! – [Il valleranese tenta di imitarlo]: Cocò! (Petroselli 1986, num. 1463, blasone su Vallerano); mo’ pe’ ssapé si ffósse stato bbagnajjòlo bbumarzése grottano viterbése eccètra, bisògna fallo parlà! Dice: Oh, sènti ‘n pò’, sènti ‘n pò! – Che cc’è? – Dì ‘n pò’ ‘a pùccia. – ‘A pùggia. – Dajje ch’è dde Bbagnajja! Sènti, sènti come parla, ‘a pùggia ha detto (Petroselli 1986, num. 1891).

59) Melillo 1970:493, 502, 504. Sulla base di inchieste effettuate nel 1958, Melillo presenta e commenta stralci dalle registrazioni sul campo. Le località trattate sono: Proceno, Acquapendente, Bagnoregio, Lubriano, Le Mosse (fraz. di Montefiascone), Chia (fraz. di Soriano nel Cimino), La Quercia (fraz. di Viterbo), Orte, Caprarola. Una carta sintetica visualizza l’incontro delle correnti linguistiche, dall’autore denominate toscaneggianti, laziali-romanesche, mediane illustri, mediane di tipo campagnolo.

60) GSDI 51.

61) Uno sviluppo della ò per dittongazione in uè si ebbe a Nepi, parallelamente a quello del romanesco plebeo antico, comune un tempo a Viterbo, dove per “baiocco” le vecchie generazioni dicevano bbuècco, bbüècco (cfr. nel Belli: muècco). In effetti nel ‘Diario’ nepesino della metà del XV secolo ricorrono forme come fuero (in ~) “fuori”, gruesso “grosso”, huemini “uomini”, lueco “luogo”, Mazuecchio “Mazzocchio” (sopr.), muerto “morto”, nuevo “nuovo”, puerco “porco”, puesti “posti”, suei “suoi”, tuelto “tolto” (Mattesini 1985, gloss.).

62) Riscontri areali: gàscia “acacia” [IC]; cèrva “acerba”, rénga [PR]; bbernàcolo “calice”, merecane “americani”, nàlese “analisi”, penecite “appendicite” [MF]; ragusta “aragosta” [T]; lòdala “allodola” [BO, CT]; càscia “acacia”, gnorante, nnocènte, ringa, sciutto, sfardo “asfalto”, struito, źźule “mezzuli” [CT]; bbaggiù “abat-jour”, càcia, cocélla “ago da rete a doppia cruna aperta”, sfarto [BO]; leàteco “aleatico” [GC].

63) Cfr. ossógna [IC, GC, L, LU, OR, ROCC, VET, VSG, VT], ossugna [A, P, VSG], scèsso “ascesso”, morasca “marasca” [T], lolòcco / olòcco “allocco” [GC] e ulòcco [L], ma appinióne “opinione” [MF].

64) Altri casi di prostesi vocalica: oltre ad aràdio e allésso di diffusione si può dire panprovinciale, abbenedice, abbalòcco “stupido”, ammalatìe [MF]; acciprèsso, acconnì “condire”, appianà “salire”, appoccià “succhiare il latte dalle mammelle” [T]; abbatizzà “battezzare”, accunnì “condire”, affortunato, ammorvidì, appenzionato, arradicà, arrajjo “raglio”, arruffjanasse, assotterrà, attappà, attastà [CT]; accunnà “cullare”, accittà, acchièsa [BL, BR]; abbadà, abbrucià, abbruzzolì “imbrunire”, aggelà [BO].

65) A Viterbo: riccontà, riccòrta, la forma dissimilata regazzo, rigazzo; ad Oriolo riccónto, rigalo; a Montefiascone e Blera rimóre “rumore”, con sopr. rimorétta.

66) Secondo il Rohlfs (GSDI 129), in ròpono e ropì, oprì si sarebbe verificato un incrocio con il verbo coprire.

67) Così in abbrèvo [L], aducazzióne “educazione”, talèfono [MF]; tanajje [CT, GC, MF], argàstolo “ergastolo”, affeminato “effeminato” [T]; bbastémmia, tarramòto [BO], bbarrétta [CT, GC], cantarano, matarazzo [CT], sarrécchja “falce messoria” [OR].

68) Vd. saggiarazzióne “esagerazione” [MF], trusco [VT], sanòfola “persona magra e pallida o di carattere acido e maligno” (da “esanòfele”) [T].

69) Il fenomeno risulta vitale soprattutto nella fascia settentrionale della provincia, come provato dagli esempi sgg.: miricani “americani”, vinuto [A]; diputato, mittìa “metteva” [L]; ggilusìa, inicci “venirci”, istate, rilìchja “reliquia”, riliggiósa, sidì “sedere”, trisòro, vidì [B]; linziòlo [O]; pinzióne, simentà, ntilligènte, dilinquènte, cridènza [GC], linzòlo [IC]; appititóso, bbinidizzióne, cirimònie, diggistióne, distinato, gginitóre, imbè “ebbene”, irisìe “eresie”, ità “età”, liggèro, pinzióne, pridosèllo “prezzemolo”, riggina, sagristano, sicónno, siménte, sivèro, trisòro, volintière [MF]; siménta [L]; dilinguènte [VSG]; cintilèna “acetilene”, dilicato, indovinósa, intìfina “antifona”, lucchisina “lucchesina, coperta da letto”, rimissino, scimpriciòtto, siminta, tistimònio [CT]; bbindolina “donnola”, capillina “cuscuta”, contravinzióne, ossìggino, rimisssióne [BO]; bbinidizzióne, cirinèi “cirenei”, linzòlo, nisuno, pirite “perite”, pricissióne, rivistito [BR], vintrésca “pancetta” [OR]; civitta, distimògno, vittina, scintilèna “acetilene” [VT].
70) Cfr. bbegónzo [IC]; velùcchjo “convolvolo”, vecino, vecenato, metetóre, mesura, mesticanza [MF]; véschjo “vischio” [BO].

71) Cfr. siedóne [B, BL, L, O] e sièda [BL, BO, CEL, CT, GC, L, MF, OR, P] (anche del toscano).

72) A Bagnoregio, cappilluzzo. A Blera invece abbiamo fenile, a Montefiascone fenile e feniléssa, ad Oriolo e a Fabrica di Roma finaròla “orbettino”.

73) Per altre zone vd. strovito “istruito”, ntricà, ntignà “insistere” [VT], nnominèllo “indovinello” [L], terrìzzia “itterizia” [MF]; omuto “imbuto”, ombratto “pastone per i polli” [MF], alla ronvèrzo “a rovescio” [BO]; cambiamento in e: enzalata [CEL]. Molto numerosi i casi in a-, soprattutto a Montefiascone: ambasto “basto”, ambiancà, ambrïaco “ubriaco”, ampiagato “impiegato”, ampiastrà, ampiccà, tra ampicce e ambròjje “tra impicci e imbrogli”, ampregazzióne, ancassà, ancatarcià “chiudere a catenaccio”, anchjodato, ancijà “gramolare”, ancontrà, ancrociato, anfame “infame”, anfinanta “fino a”, anfornà, anfreddolito, angozzata “scorpacciata, pasto troppo abbondante”, angrassà, anguìdia “invidia”, annumedì “inumidire”, annùtele “inutile”, anterèsso “interesse”, antontolito “intontito”, antrigasse, antórno, anvéce “invece”, anzalata, anzómma “insomma”. Vd. anche: anvìdia [B], anvità [V], anzegnà [CDM]; annèsco “innesco” [T]; andulito “indolenzito”, anfurmichito “informicolito” [CE]; amparà, annèsto “innesto”, ammagginasse “immaginarsi”, angrugnasse “imbronciarsi”, annèsco, annestà [BO]; annestino “operaio che esegue gli innesti” [GC].

74) Vd. fonì [A], ciovitta [GC, IC], cioettòtto “piccolo della civetta” [MF], ciovètta [T]; per metatesi della vibrante, corvèllo “crivello” [VT, passim]; in u: funì [B, P] o con epentesi di vibrante furnì “finire” [M], fuscèlla “fiscella” [B, IC, MS, VSG], guscèlla “id.” [L]; passa al grado medio: trafòjjo [BAGN, GC, GRAD, OR, VET, VIT], trafòjjolo [VET], trafògliolo [CDM] “trifoglio”.

75) Molto diffuso il pronome gnuno [VT, passim]; vd. anche dorosèlla “ombrellino pugliese” (Tordilium apulum) [T] e torosèlla “id.” [CT].

76) Vd. antano [BL], adóre “odore” [BL, MF], scarpióne “scorpione” [BO], scarpiàttala “ragazza leggera e frivola” [T].

77) L’esemplificazione che segue ne dimostra la tenacia ad Acquapendente: cusì, lavuramo, surtìo “sortivo, uscivo”; Lubriano: accusì; Bagnoregio: bbuttica “bottega”, culunnóne, cuntèmpro “contemplo”, cunvènto, gruliàssi “gloriarsi”, ludà, muniménto “monumento”, munistèro “monastero”, purtava, purtènto, scummitti “scommetti”; Celleno: mujjiche “molliche”, tudésche “tedeschi”; a Grotte di Castro: uddìo!, currènte “corrente”, pulènta; Cellere: puvèta; Lubriano: muntino; Oriolo: cunijjo, curiato “correggiato”, curiòlo “correggiolo”, lumbrico, sumaro. Il fenomeno è ampiamente documentato per Montefiascone: curriato, curriòlo, gupèrta “coperta”, occurrènza “occorrenza”, pumedòro, scudèlla, sgummarèllo “ramaiolo”, sgrullà “scuotere”, sudisfazzióne, sumara. Cui aggiungeremo i seguenti da altre località: accunnì “condire”, rimunì “togliere le fronde dai rami degli alberi tagliati” [VSG]; addurmentasse, apprufittasse, arculiźźato, bbuttijja, capumilla “camomilla”, cummune, cummunióne, cuncimà, cunijjo “coniglio”, cupertóra “coperchio di pentola”, cuprì, furtuna, furmica, gumìtolo, gunnèlla, pullino, pussìbbile, tósse cunvurza [CT]; muscino “moscerino”, rumito “eremita”, suffritto, zzuzzume “sozzume”; furasacco “specie di orzo selvatico” (Hordeum murinum), furamàcchjo “scricciolo, forasiepe” [T]; bbullì, cuntènto, curàggio, durmì, murì, suffrì [P]; addurmì, bbrusculino “seme di zucca salato ed essiccato al forno”, cujjonèlla “canzonatura, baia”, cummanno, cundùcia “condurre”, sguperchjà, vuluntière, pummedòro [VT]; appuchito “diventato poco, impoverito”, furastière, pumidòri [BR].

78) Cfr. fóngo, ónto, ógna “unghia” [T]; pónta “stormo”, torchino “turchino” [MF]; jjóma “trasuda, versa” (di recipiente contenente liquido) [L], ognacce “ungerci”, oscì “uscire” [B], bbóco “buco”, ontà [VT]; a guffo “a ufo, gratis” [IC]; spónto “colazione”, “spuntino” [CE]. Notevoli, a Bagnoregio, le forme guiscì, viscì “uscire”, guiscite “uscite”, da accostare alla onanese vièsce.

79) Cfr. a Viterbo: appontà, pónta, loneddì, stroménto.

80) Cfr. il top. viterbese musolèo, per il quale tuttavia la chiusura au > u deve considerarsi già avvenuta in epoca medievale, se trova riscontro nel Regesto Farfense degli anni 1039 -1047 (unam petiam de vinea quae reiacet in valle Musilei, RF, V, p. 279, n° 1281) e poi in carte viterbesi del XIV sec.: “con il termine ‘mausoleo’ (musileum) si designava un rudere di antico sepolcro etrusco o romano, che veniva adoperato per indicare il luogo di confine. Più località del territorio viterbese ebbero nel medioevo la denominazione ‘Musilegio’ “ (Signorelli 1907:I, 71, nota 30). Cfr. Buzzi 1993:158-161 e nota 1, doc. LVI, del 31 dic. 1333; Del Lungo 1999:280; Conti 1984:199, s.v. Mausoleo. Un altro toponimo legato alla presenza di monumenti sepolcrali antichi è trullo, attestato nella fascia sudorientale della provincia e, più diffusamente, nella contigua area romana (Del Lungo 1999:280 nota 4; per l’area romana, Del Lungo 1996, II:241-243).

81) Vd. agùrio “augurio” [OR], agurà [MF], ottomàtico [BO, CT], otòmmele “automobile”, utomàtico, ustrïècio “austriaco” [VT], otomòbbile [CT], romatismo [PR]; au- > grado zero, per aferesi: tupisìa “autopsia”[MF], tonòbbele, diènza [VT]; eu- > grado zero: calipsu “eucaliptus” [T].

82) Analogamente i neologismi di Bolsena: èulo / èvoro “euro”.

83) Cfr. bbussica a Blera.

84) Cfr. mattra “madia” [BR, N, VIT], schéltro “scheletro”, satra [MF], arbro [VT]. L’esito è tuttavia frequente non solo nelle proparossitone: vargà “valicare” [F], llogrà “logorare”, gorgatura “superficie esigua di terreno” (< mongibello =" Etna)."> gr-) designava il ghiro (Glis glis), da cui si hanno gli esiti ggrile [CNP], rillo [VAL, VI], rìvolo [S].

130) Cfr. orignóne “rognone” [GC, IC], oregnóne [L] e con sincope orgnóne [CT]. La stessa prostesi si verifica nel calabrese ariddu “grillo” (GSDI 185).

131) Cfr. bbròcchjo a Vitorchiano.

132) Cfr. bbrésco [MF], bbrésco, bbrescatèlle “panie” [VT].

133) Eccezionale invece l’esito da PL nell’agg. ciatto “piatto” [BO, CEL, CT, SM, VT] (anche del lucchese e del toscano in genere), chjatto [GC], nel derivato ciattelóne “carponi” [CEL], nella forma verbale sàccio e nel meridionalismo chjù “più” [S].

134) Cfr. il notevole jjàolo “diavolo” a Montefiascone.

135) Cfr. fìstio, màstie “maschi”, mìstio “mischiato”, stièna, stiétto, stiòppo, stiuma [MF]; stiaffà, mìstià, stiaffo, stiattasse “schiattare per la fatica”, stièna [CT].

136) Cfr. sderadecà [GRAD]; sdinervà “snervare”, sdisaccà “levare dal sacco”, sdrimógne “liquefarsi, sciogliersi” [MF]; sdiggelà, sdinoccolato “dinoccolato”, sdisanguà “dissanguare”, sdisestà “dissestare”, sdisossà “disossare”, sdisotterrà “dissotterrare, esumare”, strapiantà “trapiantare” [CT]; sdiciarvellasse, sdilargà “slargare, allentare”, sdinocciolato “dinoccolato” [BO]; sdelargà, sdelontanà “allontanare”, sdevignà “vendemmiare”, sdicervellasse, sdilaccià, sdilitta “slitta”, sdiriccià “togliere le castagne dal riccio”, sdisipì “estirpare, sterminare” [VT]; sdiggelà [OR]; sdinervà, sdiruźźinì “scozzonare” [T]; sdizzuccà “roncare le zucche” [SA]; sdicentrato, sdicioccà “dicioccare”, sdinoccelà, sdisestato, sdivizziato [P]; sdiluffjà, sdicentrà [GC].

137) Questa la norma a Bagnoregio, dove abbiamo udito la serie: aanti “avanti”, aarò “avrò”, aé, aì “avere”, aécci “averci”, la alle “la valle”, arïurticà “rivoltare”, bbaa “bava”, bbéa “bere”, bbrao “bravo”, caóne “calanco”, càolo “cavolo”, cita “Civita”, diartiménto “divertimento”, éscoo “vescovo”, faa, stïali “stivali”, làoro, ndiaolata, nòa “nuova”, òo “uovo”, piòa “piovere”, riàino “arrivavano”, ricóoro “ricovero”, riinì “rivenire”, scao “scavo”, straècchi, traajjo “travaglio, struttura lignea per tenere fermi i buoi e i cavalli durante la ferratura”. Altrettanto avviene nel vicino centro di Lubriano: s’annaa, chjamaa; ad Acquapendente: ammazzàano, remidiaa “rimediava”, stémo “stavamo”; a Celleno: chjae; a Montefiascone: addaéro “davvero”, bbéa, bbearino “prima colazione del mattino verso le ore 6-7”, caallo, caà “cavare”, càele “cavoli”, cattìa, ciaraèllo “cervello”, contrainzióne “contravvenzione”, diàolo, dïentà, dïozzióne “comunione”, doére, fao “fava”, frèe, faèlla “favella”, ggenìa “gengiva”, ggioeddì, ggióene “giovane”, laorà, lièoto “lievito”, nae, nèe, noèmmare, nòo “nuovo”, òo “ovo”, piòe, proèrbio, proisióne “previsione”, rïòlvere “revolver”, scria “scrivere”, sentìa, siddioòle “se dio vuole”, stïale, taolino, telisióne “televisione”, toàjja “tovaglia”, traerzóne “vento di nordest o di nordovest”, trao, troà, ulìa “oliva”, ulïéte “oliveti”, vio “vivo”; a Castiglione in Teverina: abbearà, cioétta, ggioanòtto, marroèscio “ceffone, manrovescio”, soèscio; a Bolsena: accoacciasse, bboaro, coata, failla, ggioédì, paoncèlla, sbisàoro “trisavolo”, taolino; nel Castrense [CEL, GC, L, P]: guernà “governare le bestie”; non lontano dalla provincia di Roma, ad Oriolo: paóne. Perfino nel capoluogo provinciale sussistono tracce d’un uso in passato più largo, almeno nel registro arcaico (guèrno “governo”, guèrna “profenda”, vésco) o in quello comune (emmarìa “avemaria”). Il tipo lessicale góto “gomito” di Montefiascone e di Orte sembra derivare direttamente da CUTUS con caduta di sillaba postonica (vd. góvido “gomito”, govidata “gomitata” di Fabrica di Roma e gotata “gomitata” di Montefiascone).

138) Come risulta dalla grammatichetta inedita dell’erudito locale Domenico Patrizi (Soriano 1902 - Roma 1966), a Soriano, per es., ci si serve del paradigma: bbéo, bbée o bbii, bbée, bbeémo, bbiìvo, bbiìva, bbèttero, bbearésti, bbeuto.

139)Tendenza che ritroviamo ad Onano: ch’ò? “che vuole?”, in Maremma interna a Piansano: o bé? “vuoi bere?”, éte bé? “volete bere?” (senza raddoppiamento sintattico); a Grotte di Castro: òjjo magnà, ònno parlà, ò ffà er padróne. Fenomeno questo generalizzato nell’Aquesiano, a Montefiascone, a Bagnoregio, dove abbiamo annotato: acca “vacca”, anta “vanta”, èrzi “versi”, ècchi “vecchi”, éne “vene”, éscoo “vescovo”, òjja “voglia”, ulìa “voleva”, énna “vendere”, ita “vita”, inicci “venirci”, òta “vuota”, idde “vide”, alle “valle”, eggarai “vedrai”; nel vicino Lubriano abbiamo incènzo per Vincenzo. Il suono vocalico iniziale risulta rafforzato in frasi di richiamo, a Montefiascone in: jjène “vieni”, jjènga “venga”, e a Piansano jjène quà!

140) Cfr. a Blera l’idronimo riocanale, riganale.

141) Cfr. nùgola (B, BL, CAN, CT, GRAD, OT, VE, VET]; nùgolo [GRAF]; digura “divora” [MF]; rigarèllo “rivolo” [VT]; rógo “rovo” [BO, CT, T, VSG]. Lo stesso avviene a Bagnoregio: gumità “vomitare”, góli “voli” e golà “volare” [MF, VT]; a Viterbo: guluppà “avviluppare”, guìsciolo “visciolo”; guìsciola “visciola”; guèrro “verre” a Ischia di Castro.

142) Cfr. ciovè, povesìa, stàtuva, strovito “istruito” [VT]; cavosétta “causa penale di poco conto” [BL]; puvèta [CEL]; luve “lui” [CT]; stantivo [BO, OR, T]; négo “neo”, stàteve “statue” [MF]; pattovèlla “patta dei pantaloni” [T]; favéna “faina”, pavòlo “paiolo” con il dim. pavoletto, pavura e pavuróso [P].

143) Cfr. péte “piede” [SIP], tàttere “datteri” [SLN], petata [MF]; l’abbiamo notato soprattutto in proparossitoni: stùpoto [CLA], ncùtine [CNP], ncùtene [VT].

144) Cfr. bbïónzo, tròolo “truogolo” [MF]. In tièlla [BS, CC, OR, OT] con il dim. tieléllo [CLA] accanto a chjèlla “id.” [MF], l’esito corrisponde a quello proprio del toscano volgare, secondo il quale in alcune parole, davanti al susseguente dittongo ie, la cons. dentale soggiace facilmente alla palatizzazione in kj: vd. chjé “tieni, prendi” [CLA] (GSDI 166). Stesso esito si ha per i nessi -dje- / -djo-, -ttje-, -stja- / -stje-. Per Fabrica di Roma, vd. la serie: agghjétro “addietro”, bbrigacchjére “brigadiere”, carrecchjére “carrettiere”, grischjano “cristiano (persona)”, grischjére “clistere”, linghjèra “ringhiera”, mischjéri “mestiere”, quischjonà “questionare”, rimègghjo “rimedio”.

145) Cfr. tròvolo “truogolo” [CA, CE, CT, MF], tròvo “id.” [GC, L]; fràvola [B, BL, CEL, OR, VET]; con dileguo totale, fràola [B, CESI, OR] e tròolo “truogolo” [BO].

146) In altre subaree compaiono soltanto probàggine [VET] e propàggene [MF, VSG]. Per altri ess., vd. frusticàjjene “insetto stecco” (Bacillus Rossius) [MF], fulina [CT, F, GC, LU, MF, VT, passim]; moròjjene per il colto “emorroidi” [VSG].

147) “Viterbienses dicunt juna et moino pro luna et molino” (Magnanelli 1907:321-322).

148) Per attestazioni del numerale milli in antico romanesco, vd. la Cronica dell’Anonimo Romano: milli vocconi ne fuoro fatti; abbe lo re de Boemia con milli todeschi; là fuoro milli cavalieri fra romani e sollati (1991:72, 88, 187). A Nepi la forma è documentata ancora a metà ‘400 (Mattesini 1985, gloss.).

149) Ricordiamo le forme mojjétta “molletta” [MF], mojjòle “molle da fuoco” [CT], mòjje “molle per afferrare i tizzoni”, mugnica [MF], mujjiche “molliche” [CE, P, VT], mojjica [CEL, LU] mognica [BO, CE, GC, P] e mognicata [P], smujjicà “sbriciolare” [B], um meróglio de lino “fascio (quantità) di lino che si mette sulla rocca” [VT]. A Viterbo anche la variante arc. bbujjicame per il famoso Bulicame di dantesca memoria; cfr. il sost. vujjicame “brulichio di insetti o di ofidi” [BO, GC], bbujjicà “ribollire della pancia” (per borborigmi) [OT], bbrujjicà “id.” [CT]. Alla serie forse bisogna aggiungere: cavajjone “filare di viti”, cucujjo “cuculo” e jjòpe “luppoli” [L], jjèneli “lendini” [BS] e le jjùtele “le faville” [SA] (per “lendini”, vd. léndere [T], lénneri [OT], lénolo [VAS], léndola / léndolo [IC], lélele [VT]; per “favilla”, luta [CEL, GC, IC, OR]).
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150) Cfr. la forma montefiasconese ìsere “isole” e risca “lisca” di Bolsena; al contrario: fiala “fiamma” e fialà “bruciare” [CT], affialà “id.” [L], scilòcco “scirocco” [BO], stolino “stuoia” (dalla var. it. storino di stuoino, stolino) [VT], fólco “spanna” [MF].

151) Cfr. ggènnoro a Graffignano.

152) Il fenomeno sembra sporadico altrove nell’area, ma in uso nel Tarquiniese, confinante con la provincia di Roma, dove sono correnti: cariòlo, carùcola [T].

153) Cfr. la serie: passóne “palo”, matassa, tèssa “tessere”, lassà [VT]; còssa “coscia”, bbussica / vessica, lessìa, lissìa [MF]; bbéssa “vescia” [BO, CT], lessìa [BO]; tàscio “tasso”, scialà [VT]. Per la riduzione di -sc- a -c-, vd. cucino “cuscino” [VSG], vìciolo “visciolo” [BO], preciutto [CC, OR, T].

154) Cfr. vantre “voialtri” a Viterbo. In via eccezionale, per es. a Bagnoregio e Montefiascone, passa alla fricativa dentale: vojjastri, astro “altro”; esiti isolati sono conazzióne “colazione”, sènnaro “sedano” [MF], contro la dominante forma sèllero [VT], lucca “nuca” [BS, GC].

155) La iotizzazione della l preconsonantica era un tratto caratterizzante anche dell’ant. romanesco. Nella Cronica dell’Anonimo romano (vd. gloss.) ricorrono: aitare “altare”, aitezza “altezza”, càice “calce”, càici “calci”, càize “calze”, coitra “coltre”, doicezza “dolcezza”, fàizo “falso”, moito “molto”, sàito “salto”, sàiza “salsa”, vòita “volta”. Il fenomeno è tuttora vivo nella parte settentrionale del Viterbese, al confine con la Toscana. A Latera infatti abbiamo registrato la serie seguente: arivòidde “rivolti”, bbàiźźo “balzo” (legaccio del covone), fàigge “falce”, fóidda “folta”, màiva “malva”, òimmo “olmo”, pàimmo “palmo”, póibba “polpa”, póivvere “polvere”, saivvàteca “selvatica”, vóibbe “volpe”. Secondo l’AIS, a Montefiascone risultano àito “alto” e càice “calce”; in effetti, le forme di questo tipo dovrebbero essere molto più numerose, secondo il vocabolario orvietano di Mattesini e Ugoccioni (1992, ss.vv.), che le riporta come voci del registro rustico: bbàizzo, bbifòico, caicàgno, càicio, càizza, caizzolaro, caizzóne, cóite, éice, fàice, fàizzo “falso”, féicio, fìizza var. di firza, màiva, pàima, pàimo, poimóne, pùice, puicino, saicìccia, sàicio, saidà “saldare”, sàisa, seiciato, sóico “solco”, svéito, vàitre “voi altri”, vòita, zzòifo “zolfo”. Anche a Latera, prossima al confine toscano, troviamo: bbàizzo “balzo” (legaccio del covone), fuirminante “fiammifero”, sciòidda “diarrea”, scuidrinà “arare con la coltrina”, spóiddo “nudo, spoglio” (dal part. pass. spólto), stoiźźà “rimbalzare”.
Il fenomeno interessa anche la contigua area toscana, se Longo negli anni ‘30 del secolo scorso poté rilevare per Pitigliano: aiddare “altare”, bbàiźźu “balzo” (legaccio per i covoni), bbifóiggu “bifolco”, fàigge “falce”, féigge “felce”, góibbe “volpe”, càiddu “caldo”, càizza “calza”, màivva “malva” (Longo 1936:19-34; 103-147). Nella località toscana coesistono anche forme come bailgóne “balcone”, éilge “elce”, fàiggu / fàilgu, fàilda “falda”, gailgagnu “calcagno”, pàilma “palma” (Longo, 1936, ss.vv.).

156) Risulta presente e vitale ad Onano, località situata sul confine con la Toscana, non distante da Latera: bbaźźo, caźźóne “calzoni”, pugge “pulce”, puggine “pulcini”, sevvàtoco, sòdde “soldi”, vadde “voialtri”. Si noti l’espressione: la vigna tutta abbucadda è pe ggran vènto “riversa in terra”. A Pitigliano, Longo (1936: 109) ha rilevato il verbo bbukaiddà “far ribaltare uno capovolgendolo”; e parlando di un lèpore, riporta l’espressione: ko na bbòtta l adò bbukaiddatu.

157) Esempi da altre subaree: bbénna “benda” [PR]; nnominèllo “indovinello “ [L]; nénnele “lendini” [O]; sìnnaco [A]; dimannà [OR]; mónnolo “fruciandolo” [BL, CC, VSG]; pennènte “orecchino a goccia” [VSG], pènnola “pendola; pènzolo” [CT], stennardo [BR]. Qui vanno anche i numerali ùnnece [MF], ùnnici [SIP], ùnici [BOM, VET], quìnnece [O, OR], quìnnici [CSE, SIP], quìnice [B, VE, VET, VSG], quìnece [VET], quìnici [BOM].

158) Raffronti: ammizzióni “ambizioni”, bbómma, spiommati, tammurèllo [B]; piómmo [VSG]; commatte [VET]; bbrumma (scherz.) “vino”, cimmèllo “zimbello”, sammuco [MF]; settèmmere [CCA, MF], novèmmere [BL, CO, CSE, F, VE, VSG]; dicèmmere [CSE, F]; nùmmero, noèmmare [MF]; stramma [PR].

159) Cfr. omuto “imbuto” [MF, P], umuto [B, FAR, LU], imuto [LU], lumuto (per concrezione dell’articolo) [MF].

160) Cfr. imbasto [BR, MS] e, con assimilazione regressiva, abbasto a Bagnoregio.

161) Cfr. mémma “melma” [P]; immèrno [L, O]; ammentà “inventare” [MF]; dom mincènzo “don Vincenzo”, mincislao “Vencislao” [B], mincènza “Vincenza”, mòsama “bozzima” [MF] e mòsima [GC], sam miàcio “San Biagio”; a Sant’Oreste mmiriacu “ubriaco” e l’espr. arcaica: ógni moccóne che mmétti m mócca. L’esito era comune al dialetto reatino, anche in fonosintassi (Campanelli 1976:72-73 e 77). Per riscontri fuori del territorio provinciale, a Trevignano (RM): sammalardino “san Bernardino”; a Tivoli (RM): sammelardinu, mméce “invece”, mmecille, mmìdia “invidia”, mmità “invitare”, mmentà “inventare”. All’inverso, troviamo a Viterbo il top. sam bièle / sam bièlle <> rc-: catenàrcio [OR], sputàrcio, sfilàrcio “filaccia” [CC], smircià “sbirciare”, màrchja “macchia” e marchjà [F], culàrcio “fondiglio”, “parte della cucurbitacea che rimane a contatto con il suolo” [T], sarcènte “rancido” [GC] (cfr. il sintagma sapé de , “aver sapore di” e a Latera: saccènte “rancido, acido”); -nn- > -rn- : arnata “spinta, abbrivo” (da: annata), sternardo “stendardo” [F]; -ss-, -zz- > -rs-, -rz- : marzagrà “massacrare” [F], varźolétto “fazzoletto” [CNP]. Quella di -ll- > -rl- trova riscontri nell’intera provincia: chitarla “chitarra” [BS, CC], sciarlétta “scialle” [CSE], tarlo “germoglio, tallo” [CEL, CT, P, PR], catarlo [CC, CT, F, MF, VAS], scatarlo [CC, CNP, CT, OR], ciurlo “ciuffo di capelli” [CC, CT], ciamurlo “cimurro” [CT], sbirlungo “spilungone”, zzérlo “sporcizia” e l’agg. zzerlóso [BO]; esito all’inverso si verifica in: stellina “sterlina” [F].

183) Raffronti: màntrice “mantice”, cercastre “cercassi” [MF], marzagrato “massacrato” [B], nguanno “l’anno scorso” [O], mènzo “mezzo”, menzóra [B], menzagósto “ferragosto” [MF], lanzagna [BL], groprì “coprire” [VT].

184) Fuori subarea si ha facchitòto “factotum” [T], melòtto “tipo di aratro con ruote” (< mappa =" Amanita"> -i (istate), -o > -u (mundagne). Nel consonantismo risultano la generalizzata sonorizzazione (bane, gane, gèndi, ngondrado, gombare e numerosi altri), la prostesi (arespónno, ariceuto, ariccomanno, addimanna), la sincope (lettra), l’apocope (professó, véda, cure, smòva, sentì), lo scempiamento (davéro, cure, alóra), il rafforzamento (dribbunale), la paragoge (davidde, àmmene, e gli inf. fane, sapene, sentine, scusane), il dileguo (frèe, scria, ua, ùtimo), l’assimilazione (quanno, moddi, addri, azzato, settemmere, monno, mméce, mannato, giudicanno, tromma, ecc.), la metatesi (drento), l’affricazione (e zzecondo) documentata sporadicamente, la geminazione (mmio caro).
Nella sua prima lettera, Cianetti conferma la pronuncia con laterale mediopalatale intensa di òglio come di figlio e foglia. Pronuncia confermata successivamente dagli esiti: aglio “ho”, buglio, annogliato, glièri, boglia, l’inf. gli “andare”, i futuri venaràglio e faraglio (cfr. ant. napoletano porragio), testimonianza di un uso oggi scomparso in quanto sostituite da òjjo, ajjo, ecc. L’avv. di luogo per “qui” è scritto staccato to chi (pronunciato tocchì), come tra là; che cosa sta per l’indef. checcòsa.
Il raddoppiamento sintattico non è rappresentato in maniera sistematica, ma sono attestati: e vvili, accanto alle forme grafiche saldate eddreno, ebbostale, eddembo.
Per la morfologia risultano gli art. det. m. e f. (a pòrta, e mese accanto al sorprendente er mónno, spia forse di un’influenza esterna, l’art. indet. no, il poss. femm. in mi ma “mia madre”, il pron. pers. esso, gli avv. annaia, listesso, quèlle, l’allocutivo tu fatto seguire dal titolo di rispetto (sòr professó mmio caro).
La prep. de compare all’interno di sintagmi priva della cons. dentale (e mese e maggio), accanto a tun casa “in casa”; come prep. impropria abbiamo fin’e mó “finora”.
Tra quelle articolate abbiamo: tu na “nella”, su na, tu ne “nel”. Tra gli avverbi ricorrono angó, ca, nun, to chi, tra la, sti, mó, ndo, addunca, assìa.
Il sistema verbale è rappresentato dalle forme del presente (gliè, vènghi, vòli, simo, sàccio, parleno, scrivémo, amo, l’impers. na, la terza sing. lasse, salute), dell’imperfetto (glièrimo, stàvimo, ava, camminéva, chiameva, magnevo, béevo, penzéva, avo), del futuro avarai, del condizionale staria, del cong. pres. (la prima sing. sii e la terza vènghi). Compaiono inoltre le forme dell’imper. figurite e mànnime, il gerundio rienno “ridendo” e burlenno (di contro nella novella I, IX del Decameron: piagnendo), i part. pass. mésto, isto, ariceuto, infine gli inf. èssa, arispónna, aringrazzià.
Anche nella loro limitatezza, i documenti forniscono tuttavia alcuni esempi significativi per lo studio della costruzione della frase. Sulla forma bèllo poco “molto” (anche agg. declinabile) è formato l’elativo bèllo poco bene “benissimo” (cfr. bbèlle che lèvite “bellissime”).
Accanto al cong. in: na ghe me sii strapazzato, compare: na che ttu vèni tocchì. Il concetto di necessità è espresso con avere+da+inf. oppure con l’impers. “bisogna”: na che ttu veni; na che tutt’er monno lo conosci e lo venghi a veda; na che me sii strapazzato. La messa in evidenza è ottenuta con la costruzione: e gganipinese lo saccio più mmèjjo, è na boglieria de dové glì. Corrente il pleonasmo: ta mmé me sa che.
Accanto ad un esempio di consecutio (quanno che venaraglio, te le faraglio vedé), ne abbiamo uno di periodo ipotetico (se t’aglio da dì a verità, e studio nun me fa sudà).
A livello lessicale notiamo vari sost. (munèllo “ragazzo”, il dispr. guitti, bazzerelli “ospedale psichiatrico”, vaccate (tradotto in nota), il trasl. gabostorno, sòra “sorella”, conzobbrina, il plur. mòri “more” (frutto), pacènzia, gèndi “persone”, malavvezzi, bòcchi), gli agg. scinicati e tamanto, la formula di saluto c’arevevémo! Ricordiamo le forme suffissate paesettello, bazzerelli, porétto; e i sintagmi: a questo mò, de vero core “sinceramente”, manco pe quelle, sesiche + sost. “un po’ di”.


1

Caro sor professore,
Canipina, 26-VIII-931 IX

E gombare Ndonio ha ariceuto a lettra tua, e m’ha isto che t’aglio d’aresponna io, perchè esso ha da glì fò. T’aringrazia da visita e lì è arencresciuto bello poco de nun essa tun casa, ndò cc’era solo a sora.
Se voli sapene, caro sor professore, chi so io, hai da sapene che mì mà gli è a sora consobrina de Ndonio, e addunca simo parendi. Sto a Genova e mo faccio e zecondo liceo. Quando a quello che te scrivo, poi essa sicuro, perchè e ganipinese lo saccio più meio dell’italiano.
Addunca, pe quello che voli sapene, mò t’aresponno:
In ganipinese “olio” se dice “oglio”
“figlio” “ “ “figlio”
“foglia” “ “ “foglia”
“bere” “ “ “bea”
“correre” “ “ “cure”
“essere” “ “ “essa”
io gli do
io le do io li o
io do loro
Quando a e parole “somaro”, “sonno”, “sapone” quanno cc’hanno l’articolo davandi, se dicono: “e zomaro”, “e zonno”, e tu nell’andri casi: “‘no bello somaro”, “sesiche sonno”, “un bezz’e sapone”.
“Noi ci scriviamo” se dice “Noi ce scrivemo”
“cane” se dice “e gane” (no brutto cane)
“pane” se dice “e bane” (un bezz’e pane), ecc.
Hai da sapene, sor professore mmio caro, che e ganipinese gliè na lengua ricca e difficile, e pe ambaralla naghe tu veni to chi. To chi poi sentine come che parleno e ganipinesi; io sto a Canipina fino a fine de Settemmere e se hai piacere de sentì che cosa da me, che nun c’aglio quelle da fane, me trovi tun casa su na via Larga fori a porta e Dunazzano: addimanna de Elvio Cianetti.
Veni, veni cà: to chi c’amo l’ua, e mori, l’aria fina, l’acqua da fundanella, e e bea tu na candina.
T’aricommanno de fa un articolo bello poco longo tu ne giornale, che dici belle poche cose de Canipina, che gli è davero no bello paesettello. Naghe tutt’er monno lo conosci e lo venghi a veda. Ce vedemo, sor professò. Abbi pacenzia si t’aglio annogliato, perchè ta me me sa che tu si bell’e stucco de sendimme. Te salute Ndonio, e sore e tutta a casata.

dev.mo
Elvio Cianetti



2

Caro Sor Professore,
Genova, 1-X-931 IX

te volevo scria appena arrivato to chi; e mmece me so mesto a letto co a free, e me so azzato glieri; naghe mi sii strapazzato bello poco. So passato da Siena e t’aglio mannato ‘na cartolina da de là. To chi se vedono e gendi de tutti e baesi de sto monno; fin’e mò ma però nun aglio ngondrado nullo canipinese.
Te manno a Ddiasilla ta l’anime sande, che co do bocchi te la dice gni poro poretto:

Ddiasilla, ddiassilla,
serve e secoli in favilla,
resti (1) Davidde co Sibbilla.
Gesù mmio co gran dolore,
verrà er giudice con furore
guidicanno e beccatore.
Sionerà la libbe tromma
con giudizio contr’a tromma.
Sorgerà Morte Natura
dall’andica seportura;
annaremo ar dribbunale
‘ndò gli è scritto e bene e e male.
Davandi a ‘n giudice se rende,
pene e corpe Dio sarà presende;
chi sarà pe noi precura?
Le bone opere so giuste e so secura.
O cremende Maestà
sarva l’omo pe tua bondà;
sarva l’anima de…(2)
questa fonde de pietà!
Ricordate, Gesú mio,
omo facessi pe condo mio,
nun ce perdi in guesto rio!
Ce creassi,
ce sarvassi,
nel legno da S.S. Croce c’aricombrassi;
fa che questo dì c’abbasti.
Tribbunal de condrizione,
davandi a Dio se fa raggione;
pregheremo la vostra sanda remissione.
Come reo bagottista (3)
le mie corpe non ardisca.
S. Maria Maddalena la subbisti,
bò ladrò pietà l’avisti;
io vi prego e nun so degno,
o Signò, me voi fa degno?
Che nun vadi in basso regno,
fra quell’angeli beati
fra i dei sceperati,
sceperati e maledetti,
stanno a voco e stanno stretti.
Mannate quella benedett’anima de…
fra quell’andri benedetti!
Pregheremo in tera china,
la tua Sanda Maestà Divina:
che nun vadi in tera d’anni,
condannata in tandi affanni.
Ddiasilla lagrimosa,
donatili pace e riposa [sic!]. Ammene.

Note - (1) oppuramende “scherzi” a piacere.
(2) e nome da persona che se vole
(3) vurgarizzazione de e verso: Ingemisco tanquam reus.

C’arevedemo, sor professó. Tandi saluti e ossequi, e speramo d’aritrovacce a Canipina.

dev.mo
Elvio Cianetti

P.S. Mannime e lettre tu ne: Balazzo Reale, Via Balbi - Genova.

3

Caro sor professore,
Genova 29-I-32-Xo

M’avarai da scusane si aglio tardato bello poco a mannatte a lettra in ganipinese; ma a corpa è de quella boglia filosofia che me fa venì e gapo storno, e nun me lasse mmai sesighe tempo pe l’amichi.
Hai da sapene che l’utimo dì dell’anno glierimo co mi mà a Canipina, quanno venette gliò tamanta neve (1), che te pareva de stà tu ne mundagne de la Russia tra là, tra là. Eddreno nun cammineva più, ebbostale l’istesso, e delegrafo ava tutti e vvili scinicati, e quello bello paesettello gli era allo buglio; figurite, sor professò, come stavimo! Io, ma però, manco pe quelle; rievo, magnevo e beevo; e quanno avo fatto tutte e robbe stì facevo e poesie ‘ncò, belle che levite. St’istate, quanno che venaraglio, te le faraglio vedè.
To cchi eddembo gli è proprio bello, e te pare proprio e mese é maggio; gli è proprio ‘na bogliaria de dovè glì tu ‘na scola, a nfracià tu ne banghi; se staria bello poco bene ta ‘nà lavorà! Ma, se t’aglio proprio da dì a verità, e studio nun me fa sudà pe quelle: tu na classe mia, simo tutti pazzi e facemo e vaccate (2) tutt’e dì. Te pare più de stà drento a bbazzerelli, che ta ‘na scola! Cusì e dembo passe rienno e burlenno. Se tu sentissi che latini, sor professò!
Annaìa nun aglio più quelle da ariccontatte. St’istate quanno ce arevedremo, faremo e studio su a lengua stì e vedarari che robba! Mì mà e mi pà te saluteno ‘nseme ta sto munello.

ECianetti
(1) il primo e di “neve” è largo
(2) chiasso e canzonature rumorose


3. TESTI FOLCLORICI
Si tratta di due fogli dattiloscritti, dei quali è stato utilizzato solo il recto: il primo contiene la diasilla, che differisce lievemente rispetto al testo che il Cianetti trasmise a Raffaele Giacomelli (vd. supra Lettere); il secondo nove brevi testi folclorici (6 stornelli, 2 blasoni popolari e una giaculatoria). Della diasilla in volgare già l’Ermini (1928:148-155), in appendice al saggio nel quale attribuì la sequenza a Tommaso da Celano, pubblicò alcune versioni dell’Italia centrale: 2 laziali (Fumone e Boville Ernica), una campana (Rocca d’Evandro), una umbra (Foligno) e due marchigiane (Fermo ed Ascoli Piceno). Per quanto riguarda l’Alto Lazio, sono noti i testi di Tuscania (Cecilioni 1988:167-175) e di Ischia di Castro (Nanni 1979:152-153).
Del 4.2, che è uno stornello d’amore, esistono varianti adattate ad altri paesi della stessa subarea: E prima Bassanello l’era ‘n fiore / adesso l’è ‘n castello rovinato, / prima ce passeggiava lo mio amore, / mo’ ‘n ce passsa più sta fà sordato (racc. Gualdo Anselmi). Lo completa un ritornello aggiuntivo (ne esistevano diversi), che si articola metricamente seguendo il modulo musicale eseguito dallo strumento che accompagnava il canto. Il 4.3 è uno stornello che si rivolge direttamento al cembalo, un tamburello che accompagnava le danze popolari e il canto nei giorni di festa. Del successivo, che veniva intonato con intento canzonatorio, si possono reperire varianti sia in Blas.Pop.I:2 e II:989, 1594, 1999 (parziale rispondenza in Blaspop II:1204, 1342, 1623, 1963) sia in altre raccolte: Pori carbugnanesi senz’ingegno, / nun sanno quanno è notte e quanno è giorno, / cianno l’orloggio e l’hanno dato im pegno, / nu llo sanno caricà a mezzoggiorno (Fabrica di Roma – racc. Gualdo Anselmi). Il 4.5 è uno stornello di lavoro: veniva intonato dalle squadre di mietitori che si recavano in Maremma durante la stagione delle messi.
I numm. 4.6. e 4.9. rientrano nella categoria dei blasoni popolari. Il primo, con il pretesto di mettere in risalto l’abbondante produzione di castagne, in realtà sottolinea, con sottile intenzione dileggiativa, che la castagna costituisce una delle poche risorse alimentari, se non l’unica, di cui dispongono gli abitanti di Canepina; il secondo presenta struttura ternaria o quaternaria analoga ad altri dello stesso contenuto [Blaspop.II:1011,1239, 1416, 1645, 17211-3, 1767; Capranica 1984:37; Cangani 1998:151]. I numm. 4.7 e 4.8 sono stornelli a distico. Il primo è costruito su un’immagine iperbolica; il secondo sull’artifizio nomen omen. Nonostante l’inversione sintattica, è annoverabile nella categoria di stornelli nella quale il primo verso presenta una struttura invariata e termina con il nome dell’innamorato/a, sul quale si regola l’assonanza del secondo verso e la rima del terzo: E lo mio amore (che) se chiama... (Donato, Peppe, Luigi, Checchino, ecc.).
L’ultimo testo è un’invocazione o giaculatoria alla Madonna del Fossatello, una piccola chiesa dove è custodita un’immagine della Vergine, oggetto di particolare venerazione da parte dei Canepinesi.




4.1. A Ddiasilla pell’ànime sande

Ddiasilla, ddiasilla,
serve e ssecoli in favilla,
scherzi Dàvidde co’ Ssibbilla!
Ggesummìo co’ gran dolóre
verrà e’ ggiùdice co’ furóre,
ggiudicanno ‘e bbeccatóre!!
Sionerà la libbetromma
con giudìzzio contr’a tromma;
sorgerà morte natura
dall’andica sepportura;
annaremo a’ ddribbunale
dov’è scritto ‘e bbène e ‘e mmale;
davandi a ‘n giùdice se rende:
pene e corpe Ddio sarà ppresende!
Chi sarà pe’ nnoi precura?
Le bbone òpere so’ ggiuste e so’ ssecura!
O cremende Maestà
sarva l’omo pe’ ttua bbondà!
Sarva l’ànima de ...
questa fonde de pietà!
Recordàte Ggesummìo
omo facessi pe’ condo mio,
nun ce perde in questo rio:
cce creassi, cce sarvassi,
nel legno della sandissima Croce ci arecombrassi:
fà che questo dì ci abbasti!
sanda Maria Maddaena la subbisti,
bo’ ladro’ pietà l’avisti:
io Ve prego e nun zo’ degno,
o Signo’! me vòi fà degno?
che nun vadi in basso regno,

fra cquell’angeli bbeati,
fra i dèi sceperati,
sceperati e mmaledetti,
stanno a’ vvóco e stanno stretti!
Mannate cquella benedett’anima de...
fra cquéll’andri bbenedetti!
Tribbunal de condrizione,
davandi a Ddio se fà raggione
pregheremo la Vostra sanda remissione:
pregheremo in tèra china
la Tua sanda Maestà ddivina,
che nun vadi in tera danni,
condannata in tandi affanni!
Ddiasilla lacrimosa,
Donàtili pace e rriposo, àmmene.

4.2. E prima Canepina gl’era ‘n viore,
mo gl’è ‘n gastello scarcato;
prima cce passeva ll’amore mio,
mo ‘n ce passe ppiù, sta ffà e’ zzordato!
Te l’avanzo ‘nzi..., te l’avanzo ‘nzà...
te l’avanzo ‘n zicaro e lo vò’:
guarda che bbella bionna, ce vojo fà l’amó!

4.3. Sionime e ccembanèllo mio, sionime bbène,
che tande vodde m’hai sionato male:
siònime a ttistomò che mme va bbène!

4.4. Povera Canepina senz’ingegno,
nun ze conósce nè nnòtte nè giórno,
che l’orloggio ‘ngó l’hann’ato ‘m bégno.

4.5. Io parto e vvajio a mmèta:
povera bbella mia chi sse la gode?
Se la gòde ‘e ggurato e ll’acciprète.

4.6. A Canepina cce so’ tre vivanne:
e zzecchili ‘e vvaroci e ‘e castagne.

4.7. Mme so’ nnamorata der celo:
Fermetime, fermetime che vvòlo!



4.8. Angelo che dde nòme ve chiamete,
O Ddio der celo, che ber nome ate!

4.9. Canepina gl’è ccauta
Vallerano poco tène
Vignanello se mandène
pe’ ggodé a libbertà!

4.10. Maria de ‘vvossatèllo
facetice abbenedì dar bambinèllo!




4. TRADUZIONE DELLA NOVELLA I, IX
DEL DECAMERON
Nella seconda metà dell’Ottocento gli studiosi italiani cominciarono a rivolgere la loro attenzione alla lingua parlata. Era indispensabile avere a disposizione campioni di base autentici dell’uso orale. Decisero quindi di riunire, con la collaborazione di intellettuali o cultori locali, la traduzione di brani letterari nei rispettivi dialetti in modo da poter procedere alla loro comparazione.
Nel 1875 Giovanni Papanti (1830-1893) si dedicò alla prima raccolta sistematica in tutta Italia di oltre 700 campioni di differenti dialetti (651 di dialetti italiani e 52 di dialetti alloglotti), utilizzando come testo di base la “Novella del re di Cipri” del Decamerone (la nona della prima giornata). Malgrado inevitabili limiti e carenze, la raccolta offre tuttora un quadro soddisfacente della situazione linguistica dell’epoca. Per la provincia di Viterbo furono raccolte le traduzioni nei dialetti di: Acquapendente (versione rustica), Grotte di Castro, San Lorenzo Nuovo, Ronciglione e Viterbo. Per quanto riguarda la versione canepinese, è possibile che essa risalga agli inizi del XX secolo, quando l’eminente filologo Ernesto Monaci (Soriano nel Cimino 1844 – 1918), professore di filologia romanza all’Università di Roma, autore di notevoli studi in vari campi della filologia romanza, soprattutto dell’italianistica, promosse per conto della Società Filologica Romana, di cui era stato nel 1901 cofondatore, l’iniziativa di completare a livello regionale la raccolta del Papanti. Con una lettera circolare, inviata a tutti i maestri delle scuole elementari, egli aveva sollecitato la versione in dialetto locale della novella del Decamerone. Sappiamo, per es., che nella vicina Soriano Achille Ferruzzi accolse l’invito e pubblicò nel 1907 la sua traduzione in sorianese, con testo originale a fronte, nel volume di poesie e memorie locali Dischi fonografici (pp. 193-195).
Un altro testo più ampio, la Parabola del figliol prodigo (Luca 15:11-32), venne successivamente adottato da altri studiosi, tra cui nel 1853 Bernardino Biondelli. Ugo Pellis, nelle sue inchieste sul campo per la raccolta di materiali per l’Atlante Linguistico Italiano, ne ha sollecitato dagli informatori la traduzione in dialetto; e, ancora negli anni Sessanta e Settanta, la Discoteca di Stato ne promosse un’ampia raccolta di versioni in tutta l’Italia.
E’ probabile che la traduzione in dialetto non sia stata effettuata a partire direttamente dall’originale boccaccesco, ma su un testo in italiano modernizzato.
Passando all’analisi del testo, l’intenzione di riprodurre il parlato spontaneo risulta, sul piano sintattico, da una costruzione come benché non ci ava più nulla speranza e dalle loc. tutto m botto, a tiorta parte, a questo mò.
Il sistema morfologico è rappresentato da un buon numero di occorrenze, come le forma verbali si, ate, fusse, chjameva, del perfetto (pijette, venette, volette, inconinzèttero, dìssono), il part. pass. isto, il cond. diria, voria, ampararia, coceria, saparia; l’inf. tronco recura, nzenà; smòva; gli avv. addunca, tocchì, angó, ju pe de lì; l’agg. femm. frangesa, il pron. quèlle, l’agg. indef. nullo (nulla speranza), il dim. non tronco in quéllo re e quéllo momento, la forma dell’elativo fòrte fòrte.
Sono documentate, a livello fonetico, la dittongazione in addiormito, la sonorizzazione consonantica (invastidì, addri) e la qualità vocalica (bóno, odóra); per il lessico, troviamo i dispr. guitti e malavezzi, gli inf. jì, nsenà, còce (dolere, dispiacere), recura e smòva, i part. addiormito e arresbijato, il sost. calunia, il cultismo ufficio. Rilevante la forma verbale liava “andava” (oggi jjava) accanto alla grafia del perfetto jì, jo lì.
Non risultano a livello grafico vari fenomeni fonetici importanti, per cui il lettore di altre zone rimane incerto sulla pronuncia canepinese. La qualità vocalica non è segnata con accento grafico in maniera sistematica; in parecchi casi non è indicato il rafforzamento delle cons. iniziali; non risulta la pronuncia della zeta; così pure non è apposto l’accento tonico in ogni caso.

Il re di Cipri, da una donna di Guascogna trafitto, di cattivo valoroso diviene


[…] Dico adunque che ne’ tempi del primo re di Cipri, dopo il conquisto fatto della Terra Santa da Gottifré di Buglione, avvenne che una gentil donna di Guascogna in pellegrinaggio andò al Sepolcro, donde tornando, in Cipri arrivata, da alcuni scelerati uomini villanamente fu oltraggiata; di che ella senza alcuna consolazione dolendosi, pensò d’andarsene a rechiamare al re; ma detto le fu per alcuno che la fatica si perderebbe, perciò che egli era di sì rimessa vita e da sì poco bene, che, non che egli l’altrui onte con giustizia vendicasse , anzi infinite con vituperevole viltà a lui fatte sosteneva; in tanto che chiunque avea cruccio alcuno, quello col fargli alcuna onta o vergogna sfogava.
La qual cosa udendo la donna, disperata della vendetta, ad alcuna consolazion della sua noia, propose di volere mordere la miseria del detto re ; e andatasene piagnendo davanti a lui, disse: - Signor mio, io non vengo alla tua presenza per vendetta che io attenda della ingiuria che m’è stata fatta, ma in sodisfacimento di quella ti priego che tu m’insegni come tu sofferi quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te apparando, io possa pazientemente la mia comportare; la quale, sallo Iddio, se io far lo potessi, volentieri ti donerei, poi così buon portatore ne se’ –
Il re, infino allora stato tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse, cominciando dalla ingiuria fatta a questa donna, la quale agramente vendicò, rigidissimo persecutore divenne di ciascuno, che, contro all’onore della sua corona, alcuna cosa commettesse da indi innanzi.

(Decameron, Nov. I, IX, ediz. Bianchi-Salinari-Sapegno)
Cianvrottola de’ Decamerone

Ate addunca da sapé che ‘che s’1 secolo fa (mo so’ moddi anni) quanno un zignore frangese che chiameva Goffrèdo pijette ‘a Tera Sanda, successe che ‘na frangésa volètte ji a visità e’ Zeborcro. Ndandoché areveniva a casa arrivètte2 ta ‘n baese de ju pe de lì, s’engondrettte con certi guitti che l’incominzèttero a invastidì. Siccome non se potètte da’ pace ji a recura da’ re de jo lì. Alora certe genti li3 dissono ch’era tutto tempo azzeccato via a ji a recura da’ re lì4, perchè dopo che non cureva ell’offese de l’addri, non cureva manco e5 sue, perchè era troppo bóno6, chè non penzeva7 manco tà8 cose sue, figuretive9 e’ cose dell’addri10.
Anzi chi se voleva sfogà de’ cose sue che li faceveno a tiorta parte, liava a sfogasse con esso. Ma quella femmina11 smanieva de vendicasse benché non ci’ ava piú nulla speranza, non s’azzittètte, però volètte avé’ ‘a12 soddisfazzione de svergognà quello re birbaccione. E piagnendoli denanzi13 a esso, li dicètte a questo mo’:
Io non so’ venuta tocchì pe’ famme fa’ giustizzia pe’ ‘a calunia che m’hanno fatta14, e tu m’hai da ‘nsenà ‘na cosa. Io voria sapé’ come fai a sopportà’ tutte e15 calunie che m’hanno isto che te fanno ta te. Così, è vero, m’ampararia io angó a sopportà quello che m’hai fatto16 manco me coceria pe’ quèlle. Tu invece si troppo bóno e soppòrti ‘gni cosa e pe17 questo se io lo potessi fa’, Dio solo lo saparìa, che te dirìa de vero core tutto ‘l male che m’hanno fatto ta mé!
A sentì’ tutte ‘ste cose se sentì smova el18 còre. se vergognètte da sé; fino allora nu19 se n’era mai accorto, ma da quello mumento20 in poi, cambiètte sentimenti, come se fino allora fusse21 stato addiormito e tutto ‘n botto s’era arresbijato22. E cominzètte a fa’ tutte cose dell’ufficio suo per bene e li facètte scontà’ e’ bene e male che l’iavano fatto ta quella femmina e doppo castighètte forte forte tutti quelli malavvézzi e tutti ‘e genti che cercheveno de falli der male ta esso e23 ta ‘a corona sua.












NOTE
Le correzioni, le aggiunte e le soppressioni nell’originale sono state apportate a penna. Il tratto grafico sembra appartenere a mano diversa da quella di Elvio Cianetti.
1. s’ (o forse n’) aggiunto dopo che. - 2. arrivèttte: cancellata una delle tre t erroneamente battuta. - 3. gli corretto in li. - 4. rellì: cancellata una delle due l. - 5. le: cancellata la l. - 6. bono: aggiunto sulla prima o un accento acuto. -7. penzava corretto in penzeva. - 8. manco cose: tra le due parole inserito tà. - 9. figurateve corretto in figuretive. - 10. ‘e addri: cancellata la e e sostituita con dell’ - 11. signora corretto in femmina. - 12. la soddisfazzione: cancellata la l di la. - 13. dinanzi corretto in denanzi. - 14. m’è stata data corretto in mm’hanno fatta. - 15. tutte calunie: inserita tra le due parole e - 16. fatto e manco: cancellata la e. - 17. per corretto in pe’. - 18. El corretto in er. - 19. non corretto in nu. - 20. momento corretto in mumento. - 21. fosse corretto in fusse. - 22. sejiato corretto in arresbijato. - 23. esso stesso: cancellato stesso ed aggiunta e.


1. Frontespizio di una lettera di Elvio Cianetti



SOMMARIO


PRESENTAZIONE 5
BIBLIOGRAFIA 7
ABBREVIAZIONI E SIMBOLI 20
SIGLA DEI COMUNI 22
LOCALITÀ DISTRIBUITE PER SUBAREA 23
PROFILO LINGUISTICO DELLA SUBAREA CIMINA NEL CONTESTO DELLA TUSCIA VITERBESE 27
NOTE 82
1. SAGGIO DI VOCABOLARIO CANEPINESE 112
2. LETTERE DI ELVIO CIANETTI A R. GIACOMELLI 170
3. TESTI FOLCLORICI 176
4. TRADUZIONE DELLA NOVELLA I, IX DEL DECAMERON 180
NOTE 184

1 commento:

Nico Valerio ha detto...

E le voci eclatanti micchì (credo, a me, ma uno strano dativo-accusativo), millì, costassù, costaggiù e centinaia di altre? Le ho sentite da giovane a Graffignano. Dovreste intervistare i pochi vecchi rimasti. Se non lo avete già fatto